T. Merton, La pace nell’era postcristiana

T. Merton, La pace nell’era postcristiana

Proponiamo alcuni brani di un testo di Merton scritto nel 1962, fatto conoscere allora attraverso ciclostilato perché ne era stata proibita la pubblicazione e che di fatto poi si accompagna benissimo alla Pacem in terris di san Giovanni XXIII; la preoccupazione di Merton è suggerire, di fronte al tema della guerra, una posizione cristiana consapevole critica e attiva, ma non ideologica; i suoi giudizi e analisi risultano nella condizione di oggi del tutto profetici e illuminano la posizione di cristiani in un tempo di guerra in un’era ormai per alcuni aspetti veramente post cristiana.

I sottotitoli sono nostri

Da La pace nell’era postcristiana di Thomas Merton 1

1.    La nostra responsabilità verso ogni essere umano (cfr p. 78)

Perché tutti sono almeno potenzialmente membra del Cristo mistico. Chi può dire con certezza assoluta di ogni altro uomo che Cristo non viva in lui? Di conseguenza, in tutte le nostre relazioni con gli altri dobbiamo renderci conto che stiamo affrontando spesso, se non sempre, le domande che furono poste a Caino e a Giuda.

Noi siamo, allora, discepoli di Cristo e necessariamente i custodi dei nostri fratelli. E la domanda che ci è posta riguarda tutti gli uomini. Riguarda, al momento presente, l’intera razza umana. Non possiamo ignorare questa domanda. Non possiamo dare un consenso irresponsabile e non cristiano all’uso demoniaco della potenza nucleare per la distruzione di un’intera nazione, di un intero continente o forse perfino dell’intera razza umana. O possiamo? La domanda, ora, è posta.

Questa è la domanda che costituisce l’oggetto del presente volume.

2.    Questo momento specifico della storia (p. 80)

Forse è già posta troppo tardi.

In questo momento molto critico della storia abbiamo un compito duplice. È un compito in cui è coinvolta in qualche misura l’intera razza umana. Ma la responsabilità più grande di tutte spetta ai cittadini dei grandi blocchi di potere, che minacciano di distruggersi l’un l’altro con le armi nucleari, chimiche e batteriologiche.

Da un lato dobbiamo difendere e promuovere i valori umani più alti: il diritto dell’uomo a vivere libero e a sviluppare la propria vita in modo degno della propria grandezza morale. Dall’altro lato, dobbiamo proteggere l’uomo dall’abuso criminale dell’enorme potenza distruttiva che ha acquisito. Agli americani e agli europei occidentali questo duplice compito sembra riducibile in pratica a una lotta contro la dittatura totalitarista e contro la guerra.

Il nostro primissimo obbligo è quello di interpretare accuratamente la situazione, e ciò significa resistere alla tentazione di semplificare eccessivamente e di generalizzare. La lotta contro il totalitarismo è rivolta non solo contro un nemico esterno – il comunismo – ma anche contro le nostre stesse tendenze nascoste verso le aberrazioni del fascismo o del collettivismo. La lotta contro la guerra non è rivolta solo contro la bellicosità delle potenze comuniste, ma contro la nostra stessa violenza, il fanatismo e l’avidità. Naturalmente, questo tipo di pensiero non sarà popolare nelle tensioni di una guerra fredda. Nessuno è incoraggiato a essere troppo lucido, perché la coscienza può rendere codardi, diluendo la forte convinzione che la nostra parte abbia completamente ragione e l’altra completamente torto. Ma la responsabilità cristiana non è verso una parte o l’altra nella lotta di potere: è verso Dio e la verità, e l’umanità intera.

Questo non è uno studio politico. Ma le opzioni morali dei nostri tempi sono necessariamente implicate in varie interpretazioni di realtà politica. I diversi punti di vista sulla situazione che prevalgono in occidente reagiscono l’uno con l’altro e tutti insieme si combinano a creare difficoltà e complessità estreme. Sorge allora la domanda se l’uomo sia realmente in grado di scegliere la pace piuttosto che la guerra nucleare o se le scelte siano ineluttabilmente fatte per lui dall’interazione di forze sociali. La risposta a questa domanda dipende da molti fattori che vanno oltre il controllo

3.    La possibilità di una guerra nucleare

Capitolo 3 (p. 93-102)

LA DANZA DELLA MORTE

Nessuno dubita seriamente della possibilità che l’uomo e la sua società siano completamente distrutti in una guerra nucleare. Questa possibilità deve essere affrontata sobriamente, anche se è così rilevante in tutte le sue implicazioni che fatichiamo ad adattarci a essa in modo pienamente razionale. In realtà, questa spaventosa minaccia è l’arma psicologica principale della guerra fredda. L’America e la Russia stanno giocando al gioco paranoico del deterrente nucleare, ciascuna sperando disperatamente di difendere la pace, minacciando l’altra con bombe più potenti e con il totale annientamento.

In queste manovre politiche malate due cose sono assolutamente chiare: in primo luogo, la popolazione civile completamente indifesa e inerme da entrambi i lati è usata come ostaggio. Naturalmente, questo è più spesso insinuato che politicamente dichiarato. Dopotutto questo non è studiato per rendere popolare una potenza nucleare nell’epoca delle nazioni meno favorite. La “guerra contro i civili” è logicamente implicata in ogni “equilibrio del terrore” (perché dopotutto è il civile inerme che dovrebbe affrontare il terrore, e lo affronta). In secondo luogo, è ammesso molto seriamente che questa enorme minaccia può arrivare ad essere, ed è effettivamente usata, in modo assurdo e irrazionale

4.    Siamo in tempi apocalittici? (p.99-100)

Coloro che pensano di poter difendere la propria indipendenza, i propri diritti civili e religiosi tramite un ricorso estremo alla bomba H non sembrano rendersi conto che la sola ombra della bomba può finire con il ridurre le loro credenze religiose e democratiche a livello di pure parole senza senso, che nascondono uno stato di belligeranza rigida e totalitaria che non tollererà opposizioni.

In un mondo in cui è sempre più certo che un altro Hitler o un altro Stalin possa apparire sulla scena, l’esistenza di armi così distruttive e la paralisi morale di capi e politici, combinata con la passività e la confusione di società di massa che esistono da entrambi i lati della cortina di ferro, costituisce il problema più grave in tutta la storia dell’uomo. I nostri tempi possono essere chiamati apocalittici, nel senso che sembriamo essere arrivati a un punto in cui tutto il dinamismo misterioso e nascosto della “storia della salvezza”, rivelato nella Bibbia, è sfociato in una crisi finale e decisiva. Il termine “fine del mondo” può essere o meno alla portata della nostra comprensione. Ma in ogni caso sembriamo assistere allo svelarsi dei simboli, misteriosamente vividi, dell’ultimo libro del Nuovo Testamento. Nella loro evidenza, essi ci rivelano noi stessi come gli uomini il cui destino è quello di vivere in un momento di probabile decisione finale. In una parola, la fine della nostra società civilizzata dipende del tutto letteralmente da noi e dai nostri immediati discendenti, se ce ne saranno. Sta a noi decidere se arrenderci all’odio, al terrore e all’amore cieco del potere in sé e per sé e quindi precipitare il nostro mondo nell’abisso, o se, frenando la nostra brutalità, possiamo pazientemente e umanamente lavorare insieme per interessi che trascendono i limiti di qualsiasi comunità nazionale o ideologica.

Qualcuno può qui obiettare che questo oscuro punto di vista della situazione contemporanea rifletta una mancanza di ottimismo cristiano e perfino un’abdicazione pessimista della speranza cristiana. Ma cos’è l’ottimismo cristiano e che cosa costituisce la speranza cristiana? Deve essere certamente qualcosa di più che una vaga e irresponsabile convinzione che, quali che siano i nostri peccati, errori e sbagli, Dio farà prosperare i nostri affari temporali e ci procurerà una sicurezza e una felicità infallibili sulla terra. Ci è veramente promessa una felicità temporale così come una eterna. Una bella vita è veramente disponibile per noi sulla terra, in una società davvero giusta e ben ordinata. Ma quando, come risultato dell’avidità, della follia e della disperazione di uomini che hanno rifiutato la giustizia, la società dell’uomo cade a pezzi, l’ottimismo cristiano non consiste nello sperare che Dio rimetterà tutto di nuovo insieme esattamente com’era prima. Questo non è nient’altro che un’aspettativa che Dio benedica e protegga indefinitamente lo status quo. Mi sembra che, considerando alcuni degli svantaggi di una tale situazione, questo non possa proprio dirsi un punto di vista ottimistico. D’altro canto, è certamente giusto sperare che, nonostante tutta la nostra follia, Dio nella sua misericordia possa e voglia preservare la razza umana dal suicidio globale. Certamente rimaniamo però liberi di rifiutare la sua misericordia e questo è il terribile pericolo dell’ora presente. Siamo sfidati a dimostrare di essere abbastanza razionali, spirituali e umani da meritare la sopravvivenza, agendo secondo le norme etiche e spirituali più alte che conosciamo. Come cristiani crediamo che queste norme ci siano state trasmesse dal vangelo e dalla teologia tradizionale della chiesa. Dobbiamo comunque vivere di queste norme in tutta la loro profondità e serietà e non solo invocarle per giustificare una condotta che in realtà viola il loro vero spirito. Chiedere che Dio benedica la guerra nucleare è un esempio calzante!

Pp. 107-109

L’Apocalisse descrive lo stadio finale della storia del mondo come una lotta di potere totale e spietata, in cui sono impegnati tutti i re della terra, ma che ha una dimensione spirituale interiore che questi re sono incapaci di vedere e di comprendere. Le guerre, i cataclismi e le epidemie che distruggono la realtà terrena sono in realtà la proiezione e la manifestazione esteriori di una battaglia spirituale nascosta. Due dimensioni, quella spirituale e quella materiale, si intersecano. Essere impegnati consapevolmente e di buon grado nella lotta di potere mondana, nella politica, negli affari e nella guerra significa precipitare con il mondo nella distruzione. I santi sono “nel mondo” e indubbiamente soffrono come tutti gli altri per i suoi conflitti omicidi. In effetti, in un primo momento essi sembrano essere sconfitti e distrutti (cf. Ap 3, 7). Ma essi vedono il significato intimo di queste lotte e sono pazienti. Hanno fiducia che Dio realizzi i loro destini e li salvi dalla distruzione finale, i cui esiti non sono soggetti al loro controllo. Quindi non badano ai dettagli della lotta di potere del mondo e non tentano di influenzarla o di impegnarsi in essa in un modo o nell’altro, nemmeno per i propri apparenti benefici, né per la sopravvivenza. Perché si rendono conto che la loro sopravvivenza non ha nulla che fare con l’esercizio della forza o con l’ingenuità. Il tema sempre ricorrente dell’Apocalisse è allora che il tipico impero mondano di Babilonia (Roma) non può che essere “ebbro del sangue dei martiri di Gesù” (cf. Ap 17,6) e che perciò i santi devono “uscire da esso” e rompere tutti i rapporti con esso e con le sue preoccupazioni peccaminose (cf. Ap 18,4 ss.) perché il suo giudizio è deciso “in un’ora” e il fumo del disastro “salirà al cielo per sempre” (Ap 19,3). Ma l’autore dell’Apocalisse non consiglia la fuga, perché non vi è nessuna via di fuga geografica da Babilonia: l’unica via di fuga è in un regno spirituale attraverso il martirio, deponendo la propria vita nella fedeltà a Dio e nella protesta contro l’impurità, la magia, la finzione e la furia omicida della città mondana (cf. Ap 21,4-8).

Qual è il ruolo della guerra in tutto ciò? La guerra è “colui che cavalca il cavallo rosso” che è mandato a preparare la distruzione del mondo, perché “ha ricevuto il potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada” (Ap 6,4). I quattro cavalieri (la guerra, la fame, la morte e la pestilenza) sono mandati come segni e precursori del compimento finale della storia. Quelli che hanno fatto prigionieri i santi saranno essi stessi fatti prigionieri, quelli che hanno ucciso i santi saranno essi stessi uccisi in guerra e i santi, a suo tempo, saranno salvati dal cataclisma dalla loro costanza (cf. Ap 13,10). Tradotti in termini storici, questi misteriosi simboli dell’Apocalisse ci mostrano l’atteggiamento cristiano primitivo verso la guerra, l’ingiustizia e le persecuzioni

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[1] La pace nell’era postcristiana, Ed Quiqajon – 1 novembre 2005, di Thomas Merton (Autore), Pierre-André Burton (a cura di), J. Forest (a cura di), B. Paoli (Traduttore), G. Dotti (Traduttore).

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