Le luci di Natale risplendono di nuovo nelle nostre strade, l’«operazione Natale» è in pieno svolgimento. E per un istante anche la Chiesa viene fatta partecipe, per così dire, della congiuntura favorevole: quando cioè, nella Notte santa, le chiese si stipano di tanta gente che però, in seguito, per molto tempo passerà ancora dinanzi alle loro porte come a qualcosa di molto lontano ed estraneo, come a qualcosa che non la riguarda. Eppure, in questa notte, per un istante Chiesa e mondo sembrano riconciliarsi. Ed è bello! Le luci, l’ incenso, la musica, lo sguardo delle persone che ancora credono; e, infine, il misterioso, antico messaggio del bambino che nacque molto tempo fa a Betlemme ed è chiamato il redentore del mondo: «Cristo, il salvatore, è qui!». Questo ci commuove; eppure, i concetti che in quel momento udiamo – «redenzione», «peccato», «salvezza» – suonano come parole che ci giungono da un mondo lontano, da un tempo ormai passato: forse era bello quel mondo, ma, in ogni caso, non è più il nostro. O lo è invece? Il mondo in cui sorse la festa di Natale era dominato da un sentimento diffuso molto simile al nostro. Si trattava di un mondo in cui il «crepuscolo degli dei» non era un modo di dire, ma un fatto reale. Tutt’ a un tratto, gli antichi dèi erano divenuti irreali: non esistevano più e gli uomini non potevano più credere in quello che, per generazioni, aveva dato senso alla loro vita. Ma l’ uomo non può vivere senza un senso, ne ha bisogno come del pane quotidiano. E così, tramontati gli antichi astri, egli dovette cercare nuove luci. Ma dov’ erano? Una corrente abbastanza diffusa gli offriva come alternativa il culto della «luce invitta», del sole, che giorno dopo giorno fa il suo corso sulla terra, sicuro di vincere e forte quasi come un dio visibile di questo mondo.
Il 25 dicembre, al centro com’è dei giorni del solstizio invernale, soleva essere commemorato annualmente come il giorno natalizio della luce che si rigenera in tutti i tramonti, garanzia radiosa che, in tutti i tramonti delle luci caduche, la luce e la speranza del mondo non vengono meno e che da tutti i tramonti si diparte una strada che conduce a un nuovo inizio. Le liturgie della religione del sole molto abilmente si erano così appropriate di una paura e insieme di una speranza originarie dell’ uomo. L’ uomo primitivo, che un tempo avvertiva l’ arrivo dell’ inverno nel progressivo allungarsi delle notti d’ autunno e nel progressivo indebolirsi della forza del sole, ogni volta si era chiesto pieno di paura: «Il sole dorato ora morirà? Ritornerà? O non sarà vinto quest’ anno (o in uno degli anni a venire) dalle forze malvagie delle tenebre, tanto da non ritornare mai più?». Sapere che ogni anno tornava un nuovo solstizio d’ inverno dava in fondo la certezza della sempre nuova vittoria del sole, del suo certo, perpetuo ritorno. È la festa in cui si compendia la speranza, anzi, la certezza dell’ indistruttibilità delle luci di questo mondo. Quest’ epoca, nella quale alcuni imperatori romani, con il culto del sole invitto, cercarono di dare ai loro sudditi una nuova fede, una nuova speranza, un nuovo senso in mezzo all’ inarrestabile crollo delle antiche divinità, coincise col tempo in cui la fede cristiana tentò di guadagnare il cuore dell’ uomo greco-romano. Ed essa trovò proprio nel culto del sole uno dei suoi antagonisti più insidiosi. Si trattava di un segno fin troppo visibile agli occhi degli uomini, molto più visibile e attraente del segno della croce nel quale giungevano gli annunciatori della fede in Cristo. …