M.-G. Lepori, “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”

M.-G. Lepori, “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”

Lettera di Dom Mauro-Giuseppe Lepori, Abate Generale OCist per il tempo di epidemia*

Carissimi, la situazione che si è venuta a creare con la pandemia di Coronavirus mi spinge a cercare un contatto con tutti voi tramite questa lettera, quale segno che stiamo vivendo questa situazione in comunione, non soltanto fra di noi, ma con la Chiesa tutta e il mondo intero. Trovandomi in Italia e a Roma, sperimento questa prova in un punto cruciale, anche se è chiaro che la maggior parte dei paesi  in cui troverà  presto  nella  stessa  situazione.

Giovare  a  tutti 

È  evidente  che  la  prima  reazione  corretta  che  dobbiamo  avere,  anche  come  Ordine  e  comunità  monastiche,  è  quella  di  seguire  le  indicazioni  delle  autorità  civili  e  ecclesiastiche  per  contribuire  con  l’obbedienza  e  il  rispetto  ad  una  rapida  risoluzione  di  questa  epidemia.  Mai  come  ora  siamo  richiamati  tutti  a  renderci  conto  di  quanto  la  responsabilità  personale  sia  un  bene  per  tutti.  Chi  accetta  le  regole  e  i  comportamenti  necessari  per  difendersi  dal  contagio  contribuisce  a  limitarlo  anche  per  gli  altri.  Sarebbe  una  regola  di  vita  da  osservare  sempre,  a  tutti  i  livelli,  ma  nell’emergenza  attuale  è  lampante  che  tutti  siamo  solidali  nel  bene  e  nel  male.  Ma  a  parte  l’aspetto  sanitario  della  situazione,  cosa  ci  chiede  questo  momento  drammatico  rispetto  alla  nostra  vocazione?  A  cosa  ci  chiama  Dio  in  quanto  cristiani  e  particolarmente  in  quanto  monaci  e  monache  attraverso  questa  prova  universale?  Che  testimonianza  siamo  invitati  a  dare?  Che  aiuto  specifico  siamo  chiamati  ad  offrire  alla  società,  a  tutti  i  nostri  fratelli  e  sorelle  nel  mondo?

Mi  torna  in  mente  l’espressione  della  Carta  Caritatis  su  cui  ho  messo  spesso  l’accento  durante  lo  scorso  anno,  in  particolare  nella  Lettera  di  Natale  2019  che,  fra  l’altro,  veniva  pubblicata  proprio  quando  in  Cina  iniziava  il  contagio  di  COVID-19:  “Prodesse  omnibus  cupientes  –  desiderosi  di  giovare  a  tutti”  (cfr.  CC,  cap.  I).  Che  giovamento  siamo  chiamati  a  offrire  a  tutta  l’umanità  in  questo  preciso  momento?

“Fermatevi  e  sappiate  che  io  sono  Dio” 

Forse  il  nostro  primo  compito  è  quello  di  vivere  questa  circostanza  dandole  un  senso.  In  fondo,  il  vero  dramma  che  vive  attualmente  la  società  non  è  tanto  o  solo  la  pandemia,  ma  le  sue  conseguenze  nella  nostra  esistenza  quotidiana.  Il  mondo  si  è  fermato.  Le  attività,  l’economia,  la  vita  politica,  i  viaggi,  i  divertimenti,  lo  sport  si  sono  fermati,  come  per  una  Quaresima  universale.  Ma  non  solo  questo:  in  Italia  e  ora  anche  in  altri  paesi,  si  è  fermata  anche  la  vita  religiosa  pubblica,  la  celebrazione  pubblica  dell’Eucaristia,  tutti  i  raduni  e  gli  incontri  ecclesiali,  per  lo  meno  quelli  in  cui  i  fedeli  si  incontrano  fisicamente.  È  come  un  grande  digiuno,  una  grande  astinenza  universale.

Questo  arresto  imposto  dal  contagio  e  dalle  autorità  è  presentato  e  vissuto  come  un  male  necessario.  L’uomo  contemporaneo,  infatti,  non  sa  più  fermarsi.  Si  ferma  solo  se  è  fermato.  Fermarsi  liberamente  è  diventato  quasi  impossibile  nella  cultura  occidentale  odierna,  peraltro  globalizzata.  Neppure  per  le  vacanze  ci  si  ferma  veramente.  Solo  i  contrattempi  spiacevoli  riescono  a  fermarci  nella  nostra  corsa  affannosa  per  approfittare  sempre  più  della  vita,  del  tempo,  spesso  anche  delle  altre  persone.  Ora,  però,  un  contrattempo  sgradevole  come  un’epidemia  ci  ha  fermati  quasi  tutti.  I  nostri  progetti  e  i  nostri  piani  sono  stati  annullati,  e  non  sappiamo  fino  a  quando.  Anche  noi,  che  pur  viviamo  una  vocazione  monastica,  magari  di  clausura,  quanto  ci  siamo  abituati  a  vivere  come  tutti,  a  correre  come  tutti,  a  pensare  alla  nostra  vita  sempre  proiettandoci  verso  un  futuro!

Fermarsi,  invece,  vuol  dire  ritrovare  il  presente,  l’istante  da  vivere  ora,  la  vera  realtà  del  tempo,  e  quindi  anche  la  vera  realtà  di  noi  stessi,  della  nostra  vita.  L’uomo  vive  solo  nel  presente,  ma  siamo  sempre  tentati  di  rimanere  attaccati  al  passato  che  non  c’è  più  o  a  proiettarci  verso  un  futuro  che  non  c’è  ancora  e  forse  non  ci  sarà  mai.

Nel  salmo  45,  Dio  ci  invita  a  fermarci  per  riconoscere  la  sua  presenza  in  mezzo  a  noi:    “Fermatevi!  Sappiate  che  io  sono  Dio,    eccelso  tra  le  genti,  eccelso  sulla  terra.    Il  Signore  degli  eserciti  è  con  noi,    nostro  baluardo  è  il  Dio  di  Giacobbe.”  (Sal  45,11-12)

Dio  ci  chiede  di  fermarci;  non  ce  lo  impone.  Vuole  che  di  fronte  a  Lui  ci  fermiamo  e  rimaniamo  liberamente,  per  scelta,  cioè  con  amore.  Non  ci  ferma  come  la  polizia  che  arresta  un  delinquente  in  fuga.  Vuole  che  ci  fermiamo  come  ci  si  ferma  davanti  alla  persona  amata,  o  come  ci  si  ferma  di  fronte  alla  tenera  bellezza  di  un  neonato  che  dorme,  o  a  un  tramonto  o  a  un’opera  d’arte  che  ci  riempiono  di  stupore  e  silenzio.  Dio  ci  chiede  di  fermarci  riconoscendo  che  la  sua  presenza  per  noi  riempie  tutto  l’universo,  è  la  cosa  più  importante  della  vita,  che  nulla  può  superare.  Fermarci  di  fronte  a  Dio  significa  riconoscere  che  la  sua  presenza  riempie  l’istante  e  quindi  soddisfa  pienamente  il  nostro  cuore,  in  qualsiasi  circostanza  e  condizione  ci  troviamo.

Vivere  la  costrizione  con  libertà 

Cosa  significa  questo  nella  situazione  attuale?  Che  possiamo  viverla  con  libertà,  anche  se  costretti.  La  libertà  non  è  scegliere  sempre  e  comunque  quello  che  si  vuole.  La  libertà  è  la  grazia  di  poter  scegliere  ciò  che  dà  pienezza  al  nostro  cuore  anche  quando  ci  è  tolto  tutto.  Persino  quando  ci  è  tolta  la  libertà,  la  presenza  di  Dio  ci  conserva  e  offre  la  libertà  suprema  di  poter  fermarci  di  fronte  a  Lui,  di  riconoscerlo  presente  e  amico.  È  la  grande  testimonianza  dei  martiri  e  di  tutti  i  santi.

Quando  Gesù  ha  camminato  sulle  acque  per  raggiungere  i  suoi  discepoli  in  mezzo  al  mare  in  tempesta,  li  ha  trovati  che  non  potevano  avanzare  per  il  vento  contrario:  “La  barca  (…)  era  agitata  dalle  onde:  il  vento  infatti  era  contrario”  (Mt  14,24).  I  discepoli  lottano  impotenti  contro  il  vento  che  li  contrasta  nel  loro  progetto  di  raggiungere  la  riva.  Gesù  li  raggiunge  come  solo  Dio  può  avvicinarsi  all’uomo,  con  una  presenza  libera  da  ogni  costrizione.  Nulla,  nessun  vento  contrario  e  neppure  nessuna  legge  della  natura  si  può  opporre  al  dono  della  presenza  di  Cristo  venuto  a  salvare  l’umanità.  “Sul  finire  della  notte  egli  andò  verso  di  loro  camminando  sul  mare”  (Mt  14,25).

Ma  c’è  un’altra  tempesta  che  vorrebbe  opporsi  alla  presenza  amica  del  Signore:  la  nostra  diffidenza  e  paura:  «I  discepoli  furono  sconvolti  e  dissero:  “È  un  fantasma!”  e  gridarono  dalla  paura»  (14,26).  Spesso  quello  che  immaginiamo  con  gli  occhi  della  nostra  diffidenza  trasforma  la  realtà  in  “fantasma”.  Allora,  è  come  se  fossimo  noi  stessi  ad  alimentare  la  paura  che  ci  fa  gridare.  Ma  Gesù  è  più  forte  anche  di  questa  tempesta  interiore.  Si  avvicina  di  più,  ci  fa  sentire  la  sua  voce,  la  sonorità  pacificante  della  sua  presenza  amica:  «Ma  subito  Gesù  parlò  loro  dicendo:  “Coraggio,  sono  io,  non  abbiate  paura!”»  (14,27).  (segue)

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