Sir 27, 30 – 28, 9 , dal Sl 102, Rm 14, 7-9 , Mt 18, 21-35
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“La mansuetudine dell’uomo è ricordata da Dio
e l’anima mite diviene il tempio dello Spirito Santo.
Evagrio
La radice della Chiesa è il perdono di Dio.
L’antico testo del Siracide che abbiamo nella prima lettura, testimonia il momento in cui Israele, a confronto con l’elaborata cultura greca, prende coscienza della propria eredità spirituale e sapienziale. In particolare con questo testo sul perdono si pone alle soglie della nuova alleanza, della logica che sarà quella del Padre nostro, rimetti a noi come noi rimettiamo, decisamente differente dalla giustizia distributiva o punitiva della grecità classica. Annuncia la legge del perdono e l’abominio del rancore e della vendetta; già allora già a questa prima lettura il comando impossibile del perdono è basato sull’accettazione della comune natura umana, della comune fragilità, del riconoscimento che l’altro appartiene alla nostra stessa carne, ma prima ancora dal riconoscimento che essendo così, fragili come siamo, siamo stati oggetto di un amore di preferenza che non ha motivazioni “misurabili”, ragionevoli secondo i canoni di una logica del calcolo. “ricordati”…, si dice nel testo per quattro volte.…Cosa ricordare? Ricorda quello che poi il salmo canta dispiegando tutte le armoniche del perdono: ricorda che sei stato creato per amore, che sei rimasto nell’essere per un amore che è diventato già da subito perdono, che questo perdono ha continuato a operare nella storia dell’Alleanza, che siamo fatti, impastati di perdono tanto quanto di polvere.
Il salmo 102 dice bene la sovrabbondante misura di un amore che non conta, che salva, libera e continua a perdonare, di un amore che è segnato da una sproporzione grande, la sproporzione che esiste tra Dio e la creatura. Dio se perdona e quando perdona, perdona da Dio, cioè senza misura… L’uomo è sempre tentato di commisurare il perdono alle capacità del suo cuore umano… Tutto il gioco è in questa sproporzione. Noi non sappiamo “reggerla” in un doppio senso:
Non ci rendiamo conto della grandezza del debito che a noi è condonato, perché se ce ne rendessimo conto saremmo ipso facto in una condizione di alleanza, essendo debitori saremo legati a chi ci ha condonato il debito che si muterebbe in debito di riconoscenza.
Non sappiamo proporzionare il nostro modo di essere donatori di perdono al modello che abbiamo ricevuto: sembra sempre meglio essere giustizieri, non solo vendicatori di noi stessi, ma farci cavalieri della giustizia o della verità, o dell’onore in modo da poter impunemente metter in atto una strategia di vendetta, o di ritorsione..
Il vangelo e la liturgia di oggi ci dicono che il perdono è la misura della fede, è il contatore della fede…
La fiducia nell’amore ricevuto ci rende canali di quello stesso amore che non ci appartiene. Quando ci mettiamo a elargire di quel che abbiamo noi in dispensa, le riserve sono subito finite… E la collera ne è il segno, il rancore il contenitore nel tempo, la vendetta l’azione che segue alla collera e al rancore
Certo, la collera per un male presente e il relativo perdono possono avere cause e concause molto differenti; fatti enormi, come l’uccisione di un figlio, una morte, un’offesa grave ma c’è anche un perdono da dare su quegli innumerevoli moti di collera quotidiana che a poco a poco se non sono affrontati subito costruiscono muri tra le persone.
Al contrario della collera Evagrio descrive l’uomo mite,
“La mansuetudine dell’uomo è ricordata da Dio e l’anima mite diviene il tempio dello Spirito Santo. Cristo reclina il capo in spirito mite e solo la mente pacifica diviene dimora della Santa Trinità. Le volpi allignano nell’anima rancorosa e le fiere si appiattano nel cuore sconvolto” (Evagrio, Gli otto pensieri della malvagità, cap 10).
Il brano del Vangelo è strutturato in una domanda di Pietro, una parabola del Signore in due tempi, e un versetto conclusivo. La parabola la conosciamo: racconta del servo cui è stato condonato molto e che approfitta del perdono ricevuto per esercitare un potere dispotico e spietato su un altro servo che era debitore verso di lui. La somma per cui il primo servo ha ricevuto il condono è talmente grande da essere irrealistica (non se ne potrebbe trovare neanche in tutta la Palestina) la somma al contrario per cui nega il perdono è irrisoria. Ma proprio questo indica il problema: la sproporzione tra noi e Dio, tra la nostra logica e la sua. Noi non siamo Dio, eppure in noi c’è qualcosa che ci rassomiglia a Lui, e il desiderio ce ne dà il segnale. Non siamo dio, e vorremmo esserlo: questa sproporzione è in noi come una ferita che può essere la porta della salvezza o, se non accettata, il principio dell’indurimento del cuore. Per quanto l’insegnamento che la parabola dà sia limpido e senza bisogno di molte spiegazioni, abbiamo tutti una fatica istintiva a riconoscere noi stessi, o almeno una parte di noi, nella figura (brutta, disumana) del servo spietato. Facciamo resistenza perché quando facciamo le nostre battaglie per la giustizia (normalmente per la giustizia che reputiamo dovuta a noi) difficilmente ci ricordiamo di essere debitori cui tutto è stato condonato. La parabola dice anche quali sono le caratteristiche di un perdono autentico: senza limiti, capace perciò di contrastare la logica della vendetta di Lamech, e, lo afferma l’ultimo versetto, di cuore: un perdono sincero, che testimonia l’accettazione in noi di un bisogno di perdono, del perdono ricevuto e dunque dona senza restrizioni o condizioni.
In fondo in questa parabola, dopo aver descritto, domenica scorsa, l’itinerario del cammino penitenziale, ci viene insegnato che il fondamento, la base della chiesa è il perdono di Dio, la sua misericordia senza limiti.