Per gentile concessione del prof. Allodi proponiamo questo bel saggio sul ’68 a cinquant’anni.
Il testo è pubblicato come editoriale di maggio del sito www.disf.org
“Per fortuna non abbiamo vinto”
Mauro Rostagno
(Leader del ’68, assassinato il 26 sett. 1988 a Trapani)
Introduzione. 1968, cinquant’anni fa: a ridosso di un’Italia attraversata da manifestazioni studentesche, cortei non del tutto pacifici, occupazioni di Università (la prima fu la Cattolica di Milano, poi la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma e quindi quella di Sociologia di Trento, dove l’occupazione si protrarrà per diversi mesi), uno dei più acuti intellettuali di allora, Augusto Del Noce, parlò di una ‘rivoluzione studentesca’ che gli appariva come il “frutto morale” dell’ultimo ventennio (1948-1968). Per tale ragione il ‘68 doveva considerarsi come “l’anno più ricco di filosofia implicita dal ’45 ad oggi” (Del Noce, 1970, 13). Il disagio e la ribellione generazionale che si esprimeva in forme “creative senza creatività” (Veneziani, 2007), apparivano dunque, già allora, qualcosa di complesso da afferrare nelle sue ragioni di fondo, non facilmente liquidabile come puro ribellismo, certo qualcosa che andava oltre la pura dimensione della politica. Qualcosa che si poteva realmente comprendere soltanto in una dinamica storica ampia, nella logica della long durèe di un mutamento socio-culturale i cui prodromi potevano essere colti già agli inizi dei Novecento, se non addirittura prima. Non a caso vi era chi, insieme a Del Noce, ad esempio Sergio Cotta, faceva risalire tutto a F. Nietzsche, il “maestro nascosto del nostro tempo”, il suo pensatore-chiave, colui che ha aveva portato alle estreme conseguenze la crisi del presente “rendendone chiari i termini essenziali”. (Cotta, 1978, 110).
A testimonianza di questa natura filosofica, esistenziale e prepolitica del fenomeno della contestazione studentesca (ed operaia), per certi versi ancora indeterminata e quindi suscettibile sia di sviluppi positivi che negativi, può essere utile richiamare quel che accadeva nella Berkeley del Free Speech Movement (1964-1965), un movimento nato sulla scia di un discorso a favore della libertà di espressione degli studenti, destinato a divenir famoso, e improvvisato da un giovane sconosciuto studente, di origini italiane, Mario Savio. Ebbene, fra le opere cult che allora alimentavano le prime inquietudini di questa nuova generazione, vi fu The Quest for Community, un’opera sulla dialettica tra etica dell’ordine e della libertà uscita dalla penna di un ‘conservatore sociale’, Robert A. Nisbet. E già questo era piuttosto sorprendente. Pubblicata nel 1953, invocava un ritorno alla comunità concreta considerata come l’unico argine possibile al totalitarismo burocratico e anonimo, tanto della società opulenta e tecnocratica occidentale quanto di quella marxista, opera che verrà poi tradotta dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti (La Comunità e lo Stato. Studi sull’etica dell’ordine e della libertà, Ivrea/Roma 1957). Quello che qui affascinava e attirava gli studenti era la nuova riflessione sul senso della comunità, su quei legami sociali di tipo comunitario che un sistema sociale segnato dall’attivismo individualistico, dalla razionalità strumentale, dalla logica cioè di un mondo “di mezzi senza più fini”, sembrava aver rimosso definitivamente o comunque relegato all’ambito più privato. Per Nisbet nella società del boom economico e dell’opulenza si era consumata una perdita fondamentale e cioè “la perdita di quella base di esperienza umana concreta che si esprime nel piccolo gruppo spontaneo e consente all’individuo di non sentirsi solo e disarmato di fronte al potere centrale e remoto” (Nisbet, 1957, 285). Per questo Nisbet aveva istituito a Berkeley un campus a numero chiuso, il Riverside, amministrato secondo uno statuto comunitaristico. In questo senso, per Del Noce, la rivolta esprimeva in fondo un’indignazione morale che aveva qualcosa di naturale, e finanche comprensibile. Quel che si nascondeva in questo stato d’animo di un’intera generazione era una critica alla “filosofia implicita” della società del benessere e tecnocratica, una critica che in pochi anni, da Berkeley sarebbe passata a Parigi fino a Berlino, Milano e Roma.
Giunto a contatto con un contesto europeo molto più ideologizzato, questo “stato d’animo di una generazione” imboccherà la strada della più radicale politicizzazione, nella quale riemergerà la tragedia della “lunga guerra civile europea” (come la chiamerà E. Nolte), una non del tutto prevedibile metamorfosi e una radicale deformazione che dalla lotta per i diritti civili assumerà i toni e i modi della violenza rivoluzionaria. Una sostanziale virata verso l’estremismo (“il puro passivo idealmente prodotto dalla società del benessere”, dice Del Noce), il cui esito finale sarà la “radicalizzazione” dei mali della società che rifiutava, una sorta di “eterogenesi dei fini”: puro prodotto, diceva Del Noce perché “accettava supinamente allo stato di poltiglia frammentaria quei principi ideali che sono all’inizio del processo che ha portato al sistema attuale, quel sistema che vorrebbe contestare” (1970, 31). La “violenza” delle istituzioni totali della società che si voleva contestare si trasferì, con l’enfatizzazione estrema del mito della rivoluzione e dell’“uomo nuovo”, insieme a quello giovanilistico, nel movimento del ’68, allontanandolo definitivamente proprio da quelle fonti filosofiche che avrebbero potuto fornire alla ‘naturale’ ribellione e indignazione giovanile un quadro più positivo, il senso di una nuova misura, una forma più alta di convivenza sociale e civile. Ciò che si determinò fu anche un essenziale cambio di paradigma culturale, con il quale ancora oggi la storia occidentale sta cercando di fare i conti. Se non un tramonto certamente una prolungata eclissi dei valori della tradizione europea, e, come avrebbe osservato un protagonista di quegli anni, J. Ratzinger, “l’ultima cesura storica in seno all’Occidente…inizio o esplosione della sua grande crisi culturale”.
A distanza di cinquant’anni da quegli eventi vi è oggi chi, non a caso, pone in relazione quella ‘ultima cesura storica’ dell’Occidente con una “prima generazione incredula” di giovani appiattiti in un nichilismo banale e pratico. Nel ’68 si condensa e precipita così una inquietudine, già ‘postmoderna’ nella sua portata, che percorre tutto il Novecento, e giustamente vi è chi ha parlato di un deja vu: il dannunzianesimo, la Carta del Carnaro e Fiume, un ‘nietzschianesimo’ che diventa il denominatore comune di molte generazioni, fino a quella del ’68. Da una parte la rivendicazione di una “nuova soggettività”, come nuova fondamentale tappa verso la realizzazione di una “cultura dell’autenticità”, piena realizzazione del progetto ‘Moderno’, un libertarismo che genera i movimenti pacifisti, quelli ecologisti, di rivendicazione dei diritti civili, ma anche una antropologicamente distruttiva “rivoluzione sessuale”: una vera e propria rivoluzione dei costumi, destinata a rimanere e a produrre un enorme mutamento socio-culturale. Ha ragione un bravo giornalista come Toni Capuozzo quando dice che il ’68 è stato moltissime cose immateriali: “la musica, i poster, Bandiera gialla alla radio, la scoperta dei ‘giovani’ a livello planetario” ma anche di moltissime cose materiali: “l’eskimo e le Clarks, le minigonne, gli stivaletti, i mangiadischi, il ciclostile e il megafono”, e quindi “l’assemblearismo” ma anche il “nomadismo e il misticismo”. (Capuozzo 2018, 11). L’“emergere del nuovo valore fondamentale del se-stesso” (Cotta 1978, 127), esposto al rischio di perdere ogni cifra normativa dell’esistenza e il senso della non negoziabilità delle opzioni etiche più alte, in sé oggettive e vincolanti per tutti. Ma dall’altra l’esplosione di una violenza nichilistica le cui radici storiche affondano addirittura nell’Ottocento Cfr. Strada, 2018), un revival politico-romantico che si concluderà in un “violento illiberalismo intellettuale” (Lübbe 2007, 153). Uno “spirito rivoluzionario” nel quale, tuttavia, riemergeva anche qualcosa che è e rimane geneticamente inscritto nella cultura europea, l’idea biblica dell’”Esodo” (Cfr. Walzer, 1986). La traccia di quella “immanente dinamica universalistica” che si collega ad un tratto preciso della tradizionale autocoscienza europea: la convinzione dell’esistenza di un diritto naturale, secondo cui “ogni tradizione, allorché limiti la libertà dell’uomo, deve giustificarsi con una motivazione” (Spaemann 1987, 6). Qualcosa che in Occidente sembra destinato a riconsegnare ad ogni generazione uno specifico compito, ma anche qualcosa che richiede che ogni generazione si riappropri dell’ontologica libertà della natura umana. Un’antropologia capace di misurare condizioni umane e sociali del proprio tempo con un parametro e un criterio universali: l’idea per cui “ogni uomo è immagine di Dio—e ha diritto a una patria e alla libertà, e ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione” (Spaemann 1987, 7).
Un’antropologia dalla quale il ’68 in un qualche modo sorse ma che, per paradosso, proprio il ’68 rifiuterà. Del Noce lo avrebbe chiamato “suicidio della rivoluzione”. Perché la ricerca di una società più umana e migliore, al servizio di una più consapevole autenticità personale e di una maggiore quota di libertà civile, si è alla fine pervertita in una “apparente tolleranza” e “in un totalitarismo reale”? In un antigiuridicismo che avrebbe negato ogni misura e forma alla vita sociale e alla relazione tra le persone? Perché la “ricerca della comunità” si è tradotta in una forma di radicale assenza di dialogicità, di rispetto, di misura? Perché, soprattutto nel nostro Paese, “il comune stato d’animo di una generazione” ha inaugurato “gli anni di piombo“ ma anche la stagione delle stragi impunite, “la notte più lunga della Repubblica (1968-1989)”? Perché siamo ancora immersi in un “immobilismo storiografico” e interpretativo, come lo chiama E. Galli della Loggia, che non consente alle differenti culture politiche di uscire dalla logica e dalla morsa della nostalgia/deprecazione, di elaborare una “memoria condivisa” e pacificatrice? …