J. Forest, Thomas Merton: monaco della chiesa indivisa

J. Forest, Thomas Merton: monaco della chiesa indivisa

Abbazia di Fiastra (Tolentino – Macerata),
 10 dicembre 2008 (trad. it. Mario Zaninelli).  

     I miei contatti con Thomas Merton o Padre Louis, come era conosciuto dai suoi confratelli monaci, iniziarono nell’estate del 1961. Ero appena entrato a far parte della comunità Catholic Worker di New York City, che si occupava di una casa di ospitalità per i «senza tetto» situata in quella parte di Manhattan conosciuta come East Village e che ora è diventata un quartiere «alla moda» della città dove si vive bene. A quei tempi, invece, era la Lower East Side, la zona più povera e più evitata di New York. Nel 1961era possibile prendervi in affitto un appartamento con sola acqua fredda, per 25 $ al mese, qualche volta anche a meno.

     È stato grazie a Dorothy Day, leader del movimento Catholic Worker, che ho iniziato uno stretto contatto con Merton. Dorothy – forse un giorno sarà Santa Dorothy dato che l’Arcidiocesi di New York sta attivamente cercando di promuovere la sua causa di beatificazione e la sua inclusione nel Calendario della Chiesa – teneva frequenti contatti epistolari con Merton e, conoscendo il mio interesse per la vita monastica e il mio entusiasmo per le opere di Merton, mi suggerì di scrivergli.

     Pochi giorni dopo avergli scritto, ricevetti da lui una risposta nella quale osservava che viviamo in un’epoca guerra e che abbiamo bisogno di tacere ed essere umili, di stare fermi, di aver fiducia in Dio e sperare in una pace da usare per il bene delle nostre anime.

     La nostra corrispondenza proseguì per circa sei anni, fino a pochi giorni prima della sua morte avvenuta il 10 dicembre 1968, 40 anni oggi.

     Nel dicembre del 1961, Merton mi suggerì di andare a trovarlo al monastero. In quel momento stavo preparando la pubblicazione del numero di febbraio di The Catholic Worker, la nostra rivista mensile, che includeva un articolo relativo alla guerra nucleare scritto da Merton. Fu così che solo agli inizi di Febbraio del 1962 fui in grado di partire per il Kentucky, facendo tutto il viaggio in autostop, e di arrivai al monastero di Nostra Signora del Getsemani dove mi fermai per circa due settimane. Con Merton ci vedevamo di frequente, quasi ogni giorno, e mi fu anche concesso di stare in aula durante le sue lezioni ai novizi.

Dopo quell’ occasione l’ho incontrato personalmente solo una volta, nel corso di un breve incontro dei «mediatori della pace», due anni e mezzo dopo. A parte questo, il nostro contatto proseguì per lettera – solitamente una o due lettere al mese – unitamente a cartoline saltuarie.

     Le cartoline non furono meno importanti ed è stato grazie ad esse che divenni immediatamente consapevole dell’interesse di Merton verso la cristianità dell’oriente e del suo viaggio verso la Chiesa indivisa. Nell’estate, o forse nell’autunno, del 1962 mi arrivò una cartolina, con un’immagine significativa che però, a quei tempi, guardai di sfuggita: una foto in bianco e nero di una icona russa del XVI secolo raffigurante Maria con il Bambino Gesù tra le braccia che, benché fosse raffigurato come un infante, sembrava piuttosto un uomo in miniatura.

     L’immagine mi sembrava formale, priva di vita, di energia, assolutamente piatta, e priva di valore artistico; paragonata alle opere d’arte del Rinascimento, quest’opera mi sembrava poco più di un disegno eseguito da un bambino dell’asilo piuttosto che parte della storia della Chiesa.

     Poco dopo la sua morte, quando fotocopiai tutta la corrispondenza che avevo avuto con Merton, non mi preoccupai di fotocopiare quell’immagine, ma neanche di tutte le altre icone – cartoline che mi aveva spedito. Ho sempre pensato che Merton non avesse gusto per questo tipo di arte primitiva Cristiana. Immaginai che qualche donatore avesse regalato al suo monastero una scatola di icone – cartoline e che Merton le stesse usando in spirito di povertà volontaria.

Fu solo molti anni dopo, mentre scrivevo Living with wisdom, la biografia di Merton, che finalmente mi balenò l’idea di quale ruolo cruciale le icone avessero giocato nella vita di Merton. Nessuno sarebbe stato felice come lui nello spedire una foto – icona agli amici.

     In realtà, avrei dovuto essere consapevole di questo modo d’essere di Merton ancor prima di incontrarlo. Ne aveva scritto qualcosa raccontando delle due tragedie della sua gioventù ne La montagna dalle sette balze. La prima tragedia fu la morte della madre a causa del cancro, quando lui aveva solo sei anni, la seconda fu la morte di suo padre quando egli era studente della High School e risiedeva nella Inghilterra rurale. Owen Merton, il padre di Tom, soffriva di un tumore al cervello che gli aveva provocato anche un grande nodulo alla testa che gli impediva persino di parlare. Il figlio sedicenne andava saltuariamente a Londra, al Middlesex Hospital e si sedeva accanto al letto del padre in assoluto silenzio, fissandolo negli occhi. … [segue]

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