LETTURA
SALMO
R. Annunciate a tutti i popoli le opere di Dio.
EPISTOLA
CANTO AL VANGELO
VANGELO
PREGHIERA DEI FEDELI
COMMENTO AL VANGELO
LUCA MOSCATELLI
L’Emmanuele (il Dio-con-noi)
Leggendo anche rapidamente i due testi di Mt 1,18-25 e 28,16-20 ci si accorge che essi costituiscono consapevolmente una «cornice». Nel primo leggiamo «come avvenne la nascita di Gesù», dove il testo greco ha «ghènesis», ovvero inizio; mentre il secondo parla di Gesù che affida la missione dopo la sua morte e risurrezione, vivo e presente ai suoi «fino alla fine del mondo». Gesù comincia, ma non finisce più: il mondo finirà (o si compirà?), ma lui resta per sempre. Ancora, il primo annuncia che la nascita di Gesù realizzerà la promessa del Dio-con-noi. Nel secondo Gesù stesso assicura: «io-sono-con-voi». Il primo parla di «salvezza dai peccati» (il nome «Gesù» vuol dire «JHWH salva»), cioè della liberazione da ciò che separa da Dio; il secondo mostra come questo avviene (comincia ad avvenire) attraverso la missione dei discepoli nella storia.
Matteo dunque incornicia l’evento di Gesù orientando la nostra lettura con questa chiave interpretativa dell’Emmanuele, il Dio-con-noi, compimento della presenza salvifica nella storia di Israele del Dio che porta il nome JHWH (che secondo Es 3 potrebbe significare: «ci sono, ci sarò sempre»).
Il primo testo segue immediatamente il brano della genealogia (ghènesis) di Gesù, inserito così nella storia del popolo dell’Alleanza che ha i suoi passaggi qualificanti in Abramo, Davide e l’esilio babilonese. La numerazione delle generazioni in tre grandi momenti, ottenuta dalla ripetizione della costante 14, pone Gesù all’inizio del quarto. Nella logica del testo egli appare in un punto che è dunque come un appuntamento: in quel momento deve accadere qualcosa perché si chiude l’«esilio». Il 4 è il numero della completezza del mondo (4 sono i punti cardinali) e a questo periodo non ne farà seguito un altro. Che questo appuntamento apra la storia di Israele all’universalità è detto subito dopo il racconto della nascita di Gesù. Matteo ci informa della visita dei «Magi» giunti da Oriente (la parola «oriente» in ebraico indica anche il «futuro»!), anticipazione della destinazione universale della presenza di Dio a tutte le genti.
Il secondo testo segue la risurrezione di Gesù e chiude il vangelo con un’apertura universale, come abbiamo già sottolineato. La «salvezza del suo popolo» diventa annuncio a tutte le nazioni. Qui l’appuntamento è esplicito: la mattina della domenica di Pasqua, prima l’angelo e poi Gesù in persona avevano detto alle donne di avvertire i discepoli che il loro Maestro li aspettava in Galilea, come abbiamo visto. Del primo appuntamento non potevamo sapere (come non sappiamo dell’ultimo, relativo al ritorno finale [parusìa] di Gesù), e infatti Giuseppe viene informato in sogno. Ma di questo sì: la Galilea è il luogo dell’inizio per i discepoli e il monte è il segno della divinità di Gesù. La morte-risurrezione di Gesù chiede un nuovo inizio, al quale si potrà sempre di nuovo attingere con atteggiamento di umile ricominciamento e di preghiera (il monte è anche quello sul quale sorge il Tempio di Gerusalemme), e nel quale sempre potremo fare esperienza della sua presenza.
I due testi hanno molte analogie strutturali, che mettono in rilievo anche differenze importanti. Riassumiamo e aggiungiamo qualcosa:
– Il contesto mette in evidenza un appuntamento decisivo di Dio con la storia degli uomini; ma mentre all’inizio esso riguarda Israele e non è saputo (anche se qualcosa si doveva pur sapere dalla predicazione profetica…), alla fine per i discepoli è esplicito, coinvolge in linea di principio tutti i popoli e rende disponibile sempre e ovunque l’incontro.
– L’evento di cui si tratta e che costituisce una cesura nella storia aprendola al suo compimento è la presenza salvifica (Emmanuele) ormai irrevocabile di Dio, visibile nella comunità ecclesiale ma anche nei poveri e nell’esistenza degli uomini / donne capaci di misericordia (Mt 25,31ss.).
– Questa presenza si realizza in mezzo a difficoltà: la presenza di Dio, realizzandosi, deve attraversare una distanza, resistenze, opposizioni. Nel primo testo è l’incomprensione (giustificata!) di Giuseppe e poi soprattutto la persecuzione di Erode; nel secondo testo è l’incredulità dei discepoli e soprattutto la già annunciata persecuzione delle genti (cf Mt 24,9). Ma come all’inizio essa non viene revocata, anche alla «fine» (o meglio nel nuovo inizio costituito dalla missione) a quelle stesse genti verrà comunque annunciato il vangelo del Regno (=l’amore di Dio: cf Mt 28,14: «fate discepole tutte le genti»; Mt 24,14: «Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine [il compimento?]»).
Sapere che Dio si consegna definitivamente agli uomini e che essi sempre lo possono incontrare è appunto la «buona notizia» di Gesù (nei due sensi del genitivo: la buona notizia portata da Gesù / costituita da Gesù).
Resta il fatto che nella nostra esperienza la presenza di Dio appare sovente problematica. Come conciliare la buona notizia della presenza indefettibile di Dio nella storia e addirittura nella vita di ciascuno con l’evidenza della sua assenza? Qui mi limito a due osservazioni. La prima è che la presenza di Dio è un dono e mai un possesso; tuttavia è anche oggetto di ricerca. Essa è data ma va anche desiderata e custodita, nel senso che occorre imparare dove e come «vederla» e «sentirla». La seconda osservazione è che Israele ha vissuto la preghiera esattamente come «luogo» della coltivazione della presenza / relazione con Dio. E ha imparato a pregare con i salmi. Anche Gesù è stato istruito da questa tradizione, e insieme a lui anche gli evangelisti, nei cui testi abbondano riferimenti alle preghiere di Israele. […]
Il Dio «Io-sono» è il Dio che dice di sé: «Ci sono, ci sarò sempre per te». E Israele attesta che sempre il suo Dio ha agito in fedeltà al nome con il quale si è rivelato. Gesù ha portato a compimento questa rivelazione e ha confermato in tal modo l’audacia di molti oranti che confessavano di aver «trovato» Dio in situazioni che sembravano escludere la sua presenza. L’Emmanuele è allora colui che dà finalmente ragione ai tanti «poveri di JHWH» che, come tanti Giobbe, pregano un Dio alla cui lontananza non si rassegnano. E alla fine il Signore, quando ha rotto il suo silenzio con l’invio del Verbo-Figlio, ha dato definitivamente ragione a loro, come aveva già fatto con gli amici-nemici di Giobbe dichiarando alla fine di quel libro che loro – ritenuti giusti – erano lontani da lui, mentre «il suo servo» Giobbe – ritenuto peccatore – aveva parlato e si era comportato da giusto.