Is 9, 1-6; Tito 2, 11-14; Lc 2, 1-14.
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Per esprimere i sentimenti che invadono il cuore dei credenti, in questa notte di Natale, i testi della liturgia di oggi fanno risuonare nelle nostre orecchie un certo numero di parole ed espressioni che hanno tutti la stessa tonalità. La gloria e la pace concludono il brano del vangelo di Luca che abbiamo appena ascoltato. La luce e la gioia sono promesse al popolo che camminava nelle tenebre, nel libro di Isaia. La sobrietà, la giustizia, la pietà e zelo per le opere buone sono i frutti di questa grazia, nella lettera a Tito.
Tuttavia, ciò che è all’origine di questa gioia purissima, di questa pienezza di esultanza, è un evento in sé molto banale, anche se è commovente. Nascite, ce ne sono state sempre. E la nascita di Gesù non aveva nulla di straordinario o di meraviglioso, per coloro che vivevano in quel tempo. Si può anche dire che è passata completamente inosservata per gli uomini di quel tempo, se non per alcuni pastori avvisati dagli angeli, per Giuseppe e Maria. Tutti gli altri, tutti coloro che si trovavano a pochi metri dal bambino, non hanno visto, non hanno sentito nulla, non si sono accorti di nulla.
Questo è il segno fondamentale dell’agire di Dio, quando Egli viene a sconvolgere le nostre vite e a cambiare il nostro mondo. Quando il Signore lavora, lo fa senza rumore, nella discrezione più assoluta, e anche nell’indifferenza. Dio passa sempre inosservato. Non cerca di farsi notare, contrariamente ai grandi di questo mondo, a tutti quegli idoli che hanno bisogno di suonare la tromba davanti a loro, di curare la scenografia e di mettersi in mostra. Dio ama lavorare nel silenzio.
Ciò richiede da parte nostra una vera conversione dello sguardo e del cuore, perché siamo affascinati, come tutti i nostri contemporanei, dai successi clamorosi, dai movimenti di folle, dallo splendore sontuoso delle glorie di questo mondo. Abbiamo difficoltà ad accettare che Dio scelga piuttosto di nascondersi, di umiliarsi, di scendere nella culla di un bambino. L’insopportabile discrezione del nostro Dio ha qualcosa di fastidioso per noi che ci sentiamo così deboli, così fragili, così minacciati.
A noi che avremmo tanto bisogno di riprendere fiducia nella nostra Chiesa, nelle nostre comunità, vedendovi affluire vocazioni numerose e sicure di sé, vedendo accorrere folle ferventi alle porte delle nostre chiese, il Signore propone piuttosto di contemplare il presepe di Betlemme, la povertà di Giuseppe e Maria, la solitudine del giardino del Getsemani, l’abbandono della croce.
Paradosso insostenibile ma estremamente vero! La gloria che Gesù ci propone, la felicità che è venuto ad insegnarci, il successo di cui è venuto a riempirci, sono agli antipodi di quei sogni che la crisi attuale ci fa scoprire quanto siano fragili e senza domani. Da duemila anni, quanti imperi sono caduti nell’oblio, quante fortune colossali e sogni di grandezza sono stati inghiottiti dal lungo fiume tumultuoso della storia? Ma il bambino di Betlemme è sempre lì, nel suo povero presepe, portatore della speranza e della fede. Senza bellezza, senza splendore, non aveva alcuna apparenza! Eppure è Lui che, da duemila anni, porta il nostro mondo ferito e straziato dal peccato. È Lui che ci rivela che l’amore è sempre il grande vincitore!
Fratelli e sorelle, in questa notte di Natale siamo invitati a contemplare lo splendore del Creatore nella debolezza di un neonato, adagiato in un povero presepe! Dio, il ricco, si è fatto povero per noi. Si è messo alla nostra portata, si è fatto a misura, è venuto più vicino a noi, al più basso. Forse è per questo che abbiamo tanta difficoltà a riconoscerlo, tanta fatica ad accoglierlo.
All’inizio di questa Eucaristia, lasciamoci toccare dall’umiltà e dalla semplicità del nostro Dio. Osiamo scendere, a nostra volta, e avvicinarci al bambino di Betlemme. Osiamo confessargli umilmente la nostra povertà e la nostra debolezza. A lui che si è fatto uno di noi!