Guillaume Jedrzejczak, Omelia per la 13.a Domenica del T.O. – C

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1Re 19, 16b.19-21; Gal 5, 1.13-18; Lc 9, 51-62.

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            «Lascia che prima!» Questa risposta di Eliseo, all’invito del profeta Elia, risuona come l’eco lontana di tutte le risposte che, il Vangelo di oggi, ci riferisce. Mentre Gesù li invita a seguirLo, alcuni discepoli hanno un atteggiamento di prudente rimozione. Certo, hanno seguito Gesù fino a questo momento, sono stati sedotti dalla sua persona e hanno ascoltato le sue parole. Il Vangelo ha risvegliato, nel loro intimo, un misterioso desiderio, sono stati veramente toccati nel cuore. Ma questo non è bastato. Quando si tratta di fare il passo, di seguire Gesù fino alla fine, guardano indietro e fanno il gesto di tornare indietro. Come il giovane ricco, si allontanano con dispiacere, con il cuore pesante e lo sguardo triste.

            Le letture di oggi ci invitano a riflettere sul nostro atteggiamento, sulla nostra risposta alla chiamata che Gesù ci rivolge anche oggi. Non siamo anche noi tra coloro che mettono la mano sull’aratro, e tante volte si voltano indietro? Sempre pronti a riprendere quella parola data per sempre, alla minima difficoltà, non appena le persone o gli eventi non corrispondono più a quello che ci aspettavamo. Ciò che sembrava eterno, ciò che doveva durare sempre, non è più che un’ombra che passa.

            Certamente, Gesù ci avverte che «chi mette la mano sull’aratro e si volge indietro non è adatto per il regno di Dio». Eppure, in un altro brano dello stesso Vangelo di Luca, che abbiamo appena ascoltato, Gesù si rifiuta di condannare coloro che non accettano di riceverLo o di seguirLo. Egli si oppone anche violentemente ai suoi discepoli indignati, mentre questi volevano far cadere il fuoco del cielo su un villaggio di Samaritani, che si era rifiutato di accoglierLo.

            Se Gesù riconosce le nostre esitazioni, i nostri ritorni indietro, i nostri rifiuti, non ci rinchiude però in queste difficoltà. Come ripete tante volte, Egli non è venuto per condannarci, ma per salvarci. Per questo ogni giorno ci rivolge nuovamente questo invito: «Oggi, se ascoltate la mia voce, non indurite il vostro cuore» (Sal 94, 8 citato in RB Prol. 10). Perché se Cristo è morto e risorto per noi, se Lui «ci ha liberati, è perché fossimo veramente liberi» per seguirLo, come affermava san Paolo, nella seconda lettura.

            Ma questa vera libertà che Egli ci offre, non ha nulla a che vedere con la soddisfazione egoistica dei nostri desideri. Questa libertà è anzitutto un cammino, un cammino di liberazione, in cui lo Spirito diventa il nostro vero maestro. E questo cammino della libertà evangelica avviene, prima di tutto, attraverso la liberazione da questo egoismo, che è la nostra unica e vera catena. Perché siamo noi, per noi stessi, la nostra sola e unica prigione.

            Per imparare questa scienza della vera libertà, che sola ci permetterà di seguire Gesù, san Paolo afferma con forza che esiste una sola scuola, la scuola dell’amore. «Poiché tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”». Perciò «siate al servizio gli uni degli altri». «L’amore è pazienza, l’amore è servizio, non è geloso, non fa niente di male, non cerca il suo interesse», l’amore non si volta indietro, ma «scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto» (1 Cor 13, 4-8). L’amore è l’unica via, che conduce a questa vera libertà, che permette di seguire Gesù.

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