G. Masturzo, La vocazione ecumenica come conformazione a Cristo: Madre Pia Gullini

G. Masturzo, La vocazione ecumenica come conformazione a Cristo: Madre Pia Gullini

L’ecumenismo è l’espressione matura della coscienza della propria identità religiosa e culturale, delle ragioni profonde che la fondano e la motivano e che diviene capace di incontro, di rapporto, di dialogo, di valorizzazione reciproca.

Ne è testimone per noi Madre Pia, alla quale dobbiamo far riferimento per comprendere lo sviluppo ecclesiale e quindi ecumenico della nostra comunità.

1. Un incontro

L’esperienza ecumenica di Madre Pia è caratterizzata da un’apertura nuova al sentire della Chiesa e con la Chiesa. Storicamente nasce grazie alla relazione che si apre  attraverso l’ Abbé Couturier con i fratelli Anglicani di Nashdom, e agli incontri con la comunità di Taizé, e ad amicizie che sentivano forte il richiamo ad edificare l’unità della Chiesa.

Madre Pia come è arrivata a questa esperienza?

In alcuni appunti di Suor Fara Crapanzano,  cronista per lunghi anni della comunità di Vitorchiano, leggiamo che Madre Pia quando divenne Badessa della comunità di Grottaferrata nel 1931 aveva   una visione vasta e profonda della vita spirituale e desiderava trovare una libertà dalle mille pastoie dei problemi quotidiani della comunità. La vita comune era  resa pesante dall’ estrema povertà delle risorse e dalla diversità di aspirazioni ed esigenze delle monache, provenienti da regioni, ambienti, formazione e educazione assai diversi. Lei lottava su due fronti : la necessità di unificare l’insieme eterogeneo della comunità, e quella di vincere nel suo cuore la lotta contro la propensione naturale all’attività e alla creatività.

Pregava e aspettava circostanze favorevoli per realizzare il suo progetto comunitario. Fu un’ attesa paziente e fiduciosa che nel passare degli anni, nell’ esperienza, e nel dolore farà crescere la sua capacità di fede e di speranza.

Nel 1933 Henriette Ferrary, che  Madre Pia aveva già incontrato a Laval nel 1925, non potendo realizzare il desiderio di entrare come monaca ad Igny, venne mandata da Mère Alphonse, allora Badessa di quella comunità, in Italia, a Grottaferrata, per un breve soggiorno.

Fu per Madre Pia una circostanza decisiva, come lo era stata sedici anni prima l’incontro con Dom Norbert Sauvage, Procuratore dell’Ordine e direttore del suo primo ritiro spirituale a Grotta. Madre Pia associando questi due avvenimenti diceva: “il Signore mi ha sempre mandato al momento buono le persone di cui avevo bisogno”.

Henriette nella sua esperienza di insegnante a Lione aveva colto appieno la forza dell’aspirazione che spingeva i cristiani ad andare verso i fratelli di diversa confessione, e lo spessore di fede, la forza spirituale e la capacità di edificazione ecclesiale di un movimento che spingeva le anime a pregare, soffrire, e offrire tutto perché i cristiani fossero uno, come Gesù aveva chiesto al Padre nella preghiera dell’ultima cena, Ut unum sint (Gv 17,21).

Questo incontro costituisce l’antefatto che spiega il vigore che si irradiava dalla  parola di Madre Pia in quello storico 18 gennaio 1937 quando lesse in Capitolo l’opuscolo di Padre Couturier che da un anno aveva iniziato il suo lavoro ecumenico in favore dell’unità dei Cristiani, e la forza dell’offerta di Madre dell’Immacolata che offri “il poco di vita” che restava ai suoi 78 anni. Ad essa si associò Suor Maria Gabriella l’anno successivo. Entrambe – come dice Suor Fara – furono colte dal Signore come semi di una vita nuova che si inseriva nella Chiesa.

Mi sembra doveroso porci una domanda: cosa ha fatto sì che Madre Pia potesse percepire in quell’incontro la novità di una parola di Dio alla sua Chiesa? Da dove le veniva una tale luce e una tale disponibilità a seguire un qualcosa che ai più se non follia sembrava perlomeno un problema della Chiesa fuori dalla portata dei comuni fedeli?

Abbiamo un’interessante testimonianza di Fra Amabile Flipo, converso e allora economo nella Comunità trappista di Frattocchie, sul pensiero comune del tempo riguardo all’ecumenismo, e alla novità che fu l’adesione di Madre Pia a questo ideale.

Ci riferisce che all’epoca un’ esperienza di unità si era fatta durante la guerra nei campi di concentramento quando la  convivenza tra gente di diverse confessioni o classi sociali portava a comprendersi e di vivere la carità reciproca, ma non si andava oltre e tantomeno era un’ideale ecclesiale.

2. Alle origini della vocazione ecumenica

In Madre Pia l’impegno ecumenico non è una delle tante opere buone da compiere per la crescita del Regno di Dio; ma è un atteggiamento spirituale che coinvolge tutta la sua persona nel rapporto con Dio, con sé stessa,  con gli altri.

Sempre Fra Amabile, un aiuto prezioso per la povera comunità di Grotta, così scrive:

L’ecumenismo, l’unità era in lei come un istinto. Istinto che era grazia, certamente. E i suoi desideri e i suoi atti di religiosa e di responsabile di una Comunità rispondevano generalmente a questo “istinto”, a questo carisma che le era proprio (…) credo che tutta la sua vita spirituale fosse mossa da una forza che faceva convergere ogni sua attività al conseguimento dell’unità.

Cercando le caratteristiche di questo “istinto” e percorrendo la vicenda umana e spirituale di Madre Pia emerge come tratto fondamentale, connaturale in lei, una disponibilità all’ascolto, al discernimento delle circostanze come veicolo privilegiato della volontà del Signore, ad imparare da esse e la conseguente, libera e immediata risposta nell’accogliere la propria verità, nel lasciarsi determinare nel cammino, nel trovare le vie sempre nuove per esprimere nella propria vita il Mistero di Cristo incontrato e amato.

Riprendendo alcuni ricordi della sua vocazione monastica notiamo la sua capacità di guardare agli avvenimenti che accadono per trarne delle illuminanti conseguenze.

Racconta che come fu sorpresa e insieme consolata dal veder spuntare da un fiacco scarabeo che si muoveva a fatica quattro bellissime ali per volare velocissimo verso il cielo, mentre lei non aveva visto che un brutto insetto che sciupava la bellezza del suo abito azzurro sul prato verde in un pomeriggio d’estate nella sua amata campagna Bazzanese, e aveva dovuto ammettere che “il Signore può essere glorificato anche dalle sue minime creature”, così fu mossa ad una decisiva conversione dalle parole di Dom Norbert Sauvage, al termine del ritiro a Grottaferrata nel 1916.

Puntiamo ora l’attenzione su questo momento decisivo della sua vocazione. Maria Gullini era una giovane ben sicura di sé e di quanto desiderava con tutto il cuore: sentiva la vocazione ad una vita attiva, nella missione ai più poveri, giudicando gli Ordini antichi “vecchiezze” e tacciando la vita contemplativa nella clausura come “vita di morte che l’avrebbe soffocata”.

La risposta che le venne data da Dom Norbert fu una luce che strappandola alle sue certezze la conduceva al punto più profondo di sé stessa:

Gesù sembra che voglia da voi il sacrificio più completo – la vostra natura desidera la vita attiva e la vostra anima esige e reclama la vita contemplativa – bisogna dare la precedenza alle esigenze dell’anima. Siate per Lui, tutta per Lui, Gesù vi ama. Non ho alcun dubbio in proposito, direi quasi che ha bisogno di voi. Egli compirà la Sua opera (…) la Sua opera sarà ricomporre questo edificio (voi stessa) in una Sua costruzione.

Nell’evidenza che una vocazione la si riceve, che la vita è orientata a una missione da compiere, la giovane e brillante Maria Gullini è richiamata innanzitutto a cambiare la direzione del suo sguardo: da sé alla relazione con un Altro; da sé al disegno di Dio perché questa è la direzione retta dello sguardo umano. Noi diventiamo ciò che guardiamo: da allora in poi lo sguardo puntato su Cristo in lei diventa un modo nuovo di essere presente alla vita, di rispondere ad essa, di lasciarsi guidare, di dare valore pieno ad ogni istante.

Chi l’ha incontrata – dice di lei Don Ennio Francia – non poteva non cogliere che la padronanza con cui affrontava persone e circostanze non era il frutto di interdizioni e rifiuti ma il frutto di una partecipazione cosciente e attiva a tutto ciò che la circondava, da qui la potenza della sua parola, la maestria a chiarire, a confortare, a incoraggiare.

Ancora Fra Amabile nella lettera già citata racconta degli incontri avuti con lei alla Fille Dieu (Romont – Svizzera) monastero di approdo dopo le dimissioni del 1951 e la partenza da Grotta:

Mai mi ha parlato dei motivi della sua venuta in Svizzera. Mai si è lasciata sfuggire il minimo lamento sul suo allontanamento da Grotta e sulla sua Comunità. Allora compresi ancor più che negli incontri a Grotta, la forza d’animo di Madre Pia (…) Madre Pia non era una natura insensibile, al contrario, un giorno a Grotta parlavamo della sofferenza ed ella mi disse che temeva il dolore. Ho pensato a questa sua affermazione quando l’ho rivista alla Fille Dieu: vedendola calma, abbandonata, silenziosa. La mia stima e il mio rispetto non sono che aumentati: ci sono disposizioni d’animo che in certe circostanze non possono ingannare.

E testimoniando di un incontro a Roma, al Policlinico, nel febbraio 1959, a due mesi dalla morte:

Nessuna parola sul passato, nessuna parola sul domani, nessuna manifesta gioia sul ritorno in Italia che a qualcuno pareva una riabilitazione. (…) un ideale dirigeva i suoi atti, aveva una fede profonda nei disegni di Dio.

Madre Pia stessa in una lettera da Romont, il 25.6.1951 legge il dramma della sua partenza da Grotta con un realismo e  una positività non comuni. Non si ferma all’umiliazione ricevuta, ma si apre all’incontro rinnovato con la realtà umana della comunità che l’ha provocata, riconoscendone un beneficio per sé. È la grande lezione di chi sa tuffarsi profondamente nel giudizio della Chiesa come l’unico possibile per continuare ad edificare il regno di Cristo:

Un soffio potente di vento, che sferzò per qualche istante la natura quel primo venerdì di Aprile mi portò qui, non so come, mi portò e Dio porta bene. (…) Sono convinta che quelle persone che hanno provocato la raffica divina hanno agito per la Gloria divina, hanno cercato Dio… e l’ho trovato io!

e ancora

7 maggio 1951 – ottimo viaggio. Abacuc è arrivato – accoglienza pienissima e sovrabbondante carità. Posto splendido. Il diletto dolcissimo Signore, mi ha preso come Abacuc e mi ha portato qui. Vedendo Lui così ben servito, proprio come lo desideravo, come l’immaginavo, come non avrei mai potuto fare né a Grotta, né altrove, mi sento felice, soddisfatta, non desidero altro.

Un’idea grande di Gesù, ed un rapporto profondo, concretissimo con la Sua umanità edifica in lei un umile pensare di sé e le permette di cogliere in tutta la sua vastità e profondità la grande via dell’obbedienza monastica: ”… capii che amare è obbedire, abbracciai costituzioni e usi come si abbraccia l’amore…”

Questa tensione alla verità da cercare, sperimentare e abbracciare nella nuda realtà delle cose e delle circostanze la guidano ad un incontro con Gesù Cristo amato e adorato, soprattutto nel sacramento eucaristico. Questo sarà il centro unico e unificante di tutta la sua spiritualità. Nell’Eucaristia avviene il supremo passaggio dall’io al noi di Cristo. Entrando con la nostra offerta consapevole nel suo mistero di Croce e resurrezione si compie anche in noi, giorno dopo giorno la grande opera della transustanziazione che ci rende corpo del Signore e sua Chiesa e che ci permette di dire con San Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). È dal quotidiano accostarsi al sacrificio di Cristo che si impara a porre il gesto dell’offerta della propria vita per l’unità.

Nei “Quinterni Autografi” Madre Pia dovendo dare alcune risposte a Gastone Zananiri sulla offerta di Suor Maria Gabriella esprime con molta precisione il senso di questo “gesto” e rivela quelle che per lei ne sono le condizioni:

Lei mi chiede se l’olocausto della propria vita è una tradizione cistercense. Io penso che sia un bisogno di ogni anima generosa, soprattutto in clausura. Non abbiamo nient’altro che noi stesse, abbiamo dato tutto, ci siamo date coi voti in modo normale: vogliamo ora sottolineare maggiormente l’offerta, aggiungendovi un significato di consumazione sofferente e la rinuncia della vita con l’accettazione di una morte prematura (…)

la passione per il disprezzo era qualcosa di molto grande per lei, che camminava un passo dopo l’altro, senza voler scegliere le strade più dure, ma lasciandosi guidare. Aveva sete di oblio e di sacrificio: una sete continua. Non aveva nessuna pretesa: tutto le sembrava gratuito, immeritato, senza prezzo. Viveva di riconoscenza. Il “grazie” era il respiro della sua anima. Nelle sue rare relazioni con quelli che erano incaricati di lei non chiedeva nient’altro che di aiutarla “ad amare sempre di più”.(…)

Grazie… Grazie… La gratitudine di cui Gabriella ha sempre vissuto si dilata, è come un oceano dove la sua anima si tuffa e si immerge. Ella non ne uscirà più. Sulle sue labbra le parole per esprimere questa riconoscenza saranno invariabilmente semplici e modeste, ma avranno il timbro della profondità che le anima.

Non desiderava né di vivere né di morire. “Come vuole il Signore”.

Non divorava, non bruciava la sua strada impaziente di averla finita; la terminava passo passo, sempre senza apparenze eroiche. il Signore l’avrebbe bruciata Lui, venendole incontro.

Madre Pia in queste pagine, scritte alla Fille Dieu nel 1953, parlando di Suor Maria Gabriella e toccando il tema dell’ offerta e della preghiera rivela qualcosa di molto prezioso riguardo a quello che deve essere stato il suo insegnamento alla comunità. La novità che desiderava suggerire alla sua comunità, in un’epoca dove ancora la devozione supplementare e personale aveva grande spazio e debordava sulla vita eucaristica e liturgica, mirava ad una fede incarnata nella globalità della vita comune del monastero.

Non ebbe alcuna corrispondenza diretta con i fratelli separati. Così la sua donazione rimase tutta fra lei e Dio, si espresse unicamente nella sofferenza. (…) Suor Maria Gabriella era gelosa della sua carità, come della sua verginità: ne ebbe lo stesso pudore filiale. Non si potrebbe pensare una vita interiore più semplice che la sua. Niente bravure ascetiche, né sforzi voluti per collocarsi su questo o su quel grado di orazione; nessun bagaglio di devozioni (cioè di preghiere supplementari), né di pratiche aggiunte alla Santa Messa, all’Ufficio Divino. (…) il suo monastero per lei era semplicemente: Gesù, il suo amore, la sua volontà, la sua gloria. Quanto a lei era la sua discepola e la sua sposa, imitando la Santissima Vergine che accoglieva Gesù nel suo seno rispondendo all’Angelo dell’Annunciazione: “Ecce, fiat mihi…” La sua docilità, il suo abbandono provenivano – mi sembra – dal fatto che aveva intuito la grandezza di Dio e, senza analizzare i suoi sentimenti, viveva nell’adorazione concreta di quel Dio che l’aveva scelta e l’amava. Si sentiva così indegna, così piccola, così niente: da questo derivano la sua umiltà e la sua gratitudine.

Ho riportato questi passi perché nel volto di Gabriella c’è un esplicito riflesso dello sguardo e del cuore della madre.

3. L’oggi di una vocazione

Suor Fara ricordando l’esperienza monastica di Madre Pia aveva scritto:

Sapeva che Dio le avrebbe dato tutto e lo ebbe. Conobbe tutte le amarezze che resero la sua vita tanto simile a quella di Cristo, e conobbe tante gioie intime, soprannaturali ed umane di qualità elevatissima. Ma prima che questa ricchezza di vita le fosse restituita, dovette passare per una vera morte, o forse per tante morti successive che la trasformarono.

Ancora oggi la sua persona vive tra noi come paradigma di una vita che non si lascia imprigionare “sull’immobilismo compiaciuto di chi è certo della propria perfezione…, nell’egoismo del proprio limite ambizioso, ma aperta a spazi infiniti di crescita per il Regno”.

Madre Pia si è lasciata trasformare e ci ha insegnato a lasciare che il Signore compia fino in fondo il suo disegno su vie impreviste, ma che “passo dopo passo” portano al grande disegno dell’Unità.

Il dinamismo dello Spirito ha inserito la vocazione ecumenica nella comunità di Grottaferrata,  portando una profonda novità nella concezione ecclesiale della vita monastica. Un esempio lo troviamo in quel semplice consiglio che tutti ricordano come tipico di Madre Pia:

“Lasciarsi innamorare dall’umanità di Cristo e tutto offrire per la Chiesa…”.

Le parole “per la Chiesa” portano una ventata di novità al rapporto esclusivo tra l’anima e il suo Signore che aveva caratterizzato il pur illuminato insegnamento di Dom Norberto.

E non si può comprendere l’offerta della vita per l’unità di tutti i Cristiani fatta dalle nostre sorelle, se non si tiene presente che è quella parola “tutti” che la specifica come offerta per e nella Chiesa.

Lo slancio e la molteplicità di relazioni ecumeniche che avevano caratterizzato l’esperienza di Madre Pia oggi hanno lasciato posto ad un nuovo orizzonte. La visione ecclesiale della Comunità si è precisata nella dottrina del Concilio, nell’incontro con nuove generazioni di giovani attraverso il dono di numerose vocazioni e nuove culture attraverso le fondazioni che la comunità ha fatto.

L’eredità di Madre Pia, il suo donarsi all’intuizione profetica dell’unità della Chiesa, oggi vive in ciò che noi abbiamo chiamato visione comune e che trova il suo riferimento

Alla salvezza incontrata nella persona di Cristo, riconosciuta presente nell’esperienza di vita monastica; testimoniata nel processo di conversione continua, espressa dall’unità che deriva dall’esser “un cuor solo e un’anima sola”.

… non un’elaborazione astratta e teorica ma è l’avere a cuore la costruzione del corpo di Cristo, nell’assunzione di una volontà comune per rispondere insieme alla volontà di Dio.

La realtà di una visione comune mette a fuoco che il mio io è chiamato a realizzarsi in un noi, quello del Corpo di Cristo. Il corpo di Cristo non è una costruzione che viene alla fine, ma è ciò che mi precede e a cui devo tendere per esprimere pienamente la mia  persona. Per realizzare pienamente la mia persona la via è abbracciare la dinamica di conversione,  che  mi permette di essere uno con il cuore, il pensiero, il desiderio di Cristo; uno con il suo corpo, la Chiesa. La Chiesa è infatti la sola realtà capace di abbracciare, nel suo slancio dinamico,  ogni realtà e situazione e renderla spazio dove Cristo regni.

Nell’Enciclica Ut Unum Sint al n.9 troviamo una sintesi del cammino ecumenico della Chiesa, visto in quella dinamica dello Spirito che guida la nostra vita nella conformazione a Cristo:

Credere in Cristo significa volere l’unità:

volere l’unità significa volere la Chiesa;

volere la Chiesa significa volere la comunione di Grazia che corrisponde al disegno del Padre da tutta l’eternità.

Ecco quale è il significato della preghiera di Cristo: “Ut unum sint”

Da questa affermazione del Magistero mi sembra che emergano tre punti che caratterizzano la vocazione ecumenica che è stata trasmessa alla nostra comunità attraverso l’intuizione profetica di Madre Pia e l’offerta di Suor Maria Gabriella.

La comunione nella conversione personale e comunitaria, nell’adesione alla volontà del Signore riconosciuta e amata nelle circostanze concrete e attuali della vita;

La comunione nella verità, in tutto ciò “che riguarda Dio e la Sua Chiesa”

La comunione nella preghiera che esprime la verità dell’uomo come persona “che non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (GS 24)

 

Sr. Gabriella Masturzo

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Fonte: Bollettino AIM

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