Cristiana Piccardo, Conversatio

Voti

 

 

 

2 Maggio 1972

Voti 1: Cosa è un voto?

Definizione di S. Tommaso nella “Summa Theologica”:

Il voto è una promessa fatta a Dio. Secondo il padre Hennaux, gesuita, questa definizione presenta una difficoltà di interpretazione, in quanto si può riferire non solo al voto di religione, ma a qualsiasi voto (come promessa di particolari preghiere, o pellegrinaggi, ecc.). Comunemente infatti si tende a localizzare la parola voto più in riferimento a un contenuto morale che teologale.

Tommaso inserisce la sua definizione nella parte che tratta della virtù di religione, e più specificamente della devozione, come tipo di qualsiasi impegno che si può assumere con Dio. La finalità della virtù di religione è di ordinare tutto nella vita umana al culto e al servizio di Dio. Quindi il voto, rientrando in questo contesto, non ha per oggetto un fatto determinato, ma la persona, consacra a Dio la totalità della persona.

Il voto in sé trascende anche il fatto della conversione dei costumi, che appartiene ancora alla sfera morale, mentre il voto in sé è a livello ontologico (cioè esplicitazione della grazia battesimale assunta come norma assoluta e globale dell’esistenza).

La “promessa”, in realtà, si lega essenzialmente al futuro; e si promettono più facilmente cose o atti che se stessi.

1972

Voti 2: Cosa è un voto?

Dicevamo l’altra volta che solo situando il voto di religione nella visione teologica della devozione (“devovere”) se ne capisce la dimensione mistica. Il voto di sé non è solo di natura ascetica, ma comporta una dimensione mistica, essendo la consacrazione di tutto il nostro essere a Dio, anche se poi questo viene espresso nelle dimensioni umane dell’essere, dell’agire e dell’avere: povertà, castità, obbedienza. Ma dal punto di vista teologico il voto è a livello non dell’agire, ma dell’essere, è una reale dimensione ontologica, per questo è accostato al battesimo.

Consideriamolo in una visione cristocentrica: Gesù morendo sulla croce ha detto: «consummatum est» (cfr Gv 19, 30). Nella morte di Gesù tutta la storia umana raggiunge la sua consumazione, il suo perfezionamento nell’amore. L’atto del morire di Cristo sulla croce è l’atto a cui l’umanità è sospesa, consacrata e consumata nell’amore, è una dimensione perenne anche se situata nella storia. Quest’atto è stato anticipato nella cena: prende il suo corpo, la totalità del suo essere, e lo spezza. Il pane spezzato è il corpo. L’anticipazione della morte, della consumazione è lo spezzare del pane.

Nessuno prende la mia vita, se non la voglio dare. Rompe se stesso prima di essere spezzato dai peccatori nella crocifissione. Si moltiplica e divide fra tutti restando intero.

Passa così al Padre attraverso gli altri; così guardando gli altri che ha davanti può dire: questo è il mio corpo. L’atto di quella sera, unico, è sempre attualizzazione e ciascuno di noi entra in quell’unico atto nella misura in cui spezza se stesso e diventa pane per gli altri per la gloria del Padre. La Messa è il momento in cui questo fatto ci raggiunge. Ci transustanzia nel fatto eucaristico. La nostra consacrazione infatti non è che il passaggio totale al Padre. Tutti i cristiani vivono questo per il battesimo. I religiosi anticipano visibilmente questa morte: è lo spezzare, la rottura della nostra esistenza per anticipare il passaggio totale al Padre. Il voto ci introduce nella dimensione eterna escatologica.

Il voto è esattamente in questa linea, la esprime ufficialmente, è un abbandono totale all’avvenimento eucaristico di Cristo.

Questo è il contenuto teologico del voto in quanto tale: anticipare il «consummatum est».

1972

Voti 3: Pubblicità dei voti

La Chiesa è un mistero di reciprocità in cui le diverse vocazioni si integrano.

Tutta la Chiesa è chiamata a vivere la morte povera, casta, obbediente di Gesù, ma non tutti i cristiani sono chiamati ad anticipare questa morte in modo visibile; questa è la vocazione dei religiosi. Ma è proprio perché i religiosi non fanno altro che vivere una dimensione costitutiva di tutta la Chiesa, che la Chiesa si riconosce nella vita religiosa. È per questo che il voto deve essere pubblico, per rappresentare visibilmente e pubblicamente, in questo mistero di riconoscimento e reciprocità, l’ideale escatologico della Chiesa intera. Il religioso non fa voto semplicemente per se stesso. È un atto ecclesiale, posto nella Chiesa e per la Chiesa, segno per gli altri, di ciò che essi stessi devono vivere, sia pure in uno stato differente.

Voti temporanei

Se i voti di religione consistono semplicemente nel promettere un certo numero di cose a Dio, possono ben essere temporanei. Ma se il voto di religione consiste essenzialmente nel votare se stesso, se vuole anticipare l’atto del morire in cui si apre all’eternità di Dio in un sì definitivo e irrevocabile, allora non può essere che un impegno per sempre. Appartiene all’essenza del voto di religione di essere perpetuo.

L’espressione “voti temporanei”, per il P. Hennaux, è decisamente ambigua. Si dovrebbe piuttosto parlare di “promesse”.

Il momento in cui uno si vota a Dio per sempre è il momento in cui la Chiesa riconosce che egli vive già la partecipazione al mistero di morte e risurrezione di Gesù, e che questo mistero l’ha già trasformato, transustanziato, consacrato. Si vede qui che l’atto del voto non ha nulla a che vedere con una offerta volontaristica; è piuttosto, il riconoscimento di un fatto, di una trasformazione già operata.

Voto di conversione

23 Luglio 1972

Voto di conversione di vita 1

(Lezioni svolte sulla traccia di “Il libro della Trappa” di Dom Agostino, partendo dalla base di quella sintesi di vita monastica lasciataci da Padre Mauro, in cui la contemplazione era vista come sguardo di misericordia, bontà, salvezza di “Dio che scruta le reni e i cuori”).

Nella professione monastica noi emettiamo un voto molto preciso: quello della conversione di vita. Ci sarebbe da fare un discorso (lo abbiamo fatto in noviziato) sul senso del voto, che è in realtà il votare noi stessi e il riconoscere a Dio la totalità dei diritti su di noi. Quella prostrazione così significativa fatta in presbiterio, e le preghiere pronunciate sulla persona prostrata, indicano una presa di possesso di Dio, per la quale l’individuo si offre a Dio davanti a tutta la Chiesa. Si offre in libagione, anticipando la consegna suprema e definitiva della vita al Padre, che avviene nella morte, come Cristo ha anticipato la Croce nella consumazione Eucaristica.

È questo il significato del voto: anticipazione della totale remissione di noi stessi a Dio, anima, corpo, sangue offerti in libagione.

Tuttavia questa realtà si esprime in promesse particolari, concrete, giuridiche, pubbliche, davanti alla Chiesa, alla comunità, ai Santi del Paradiso.

Questo votarsi assume per noi delle promesse particolari: obbedienza, stabilità, conversione dei costumi.

Se il voto è il cammino della disponibilità assoluta, che cosa significa in questa prospettiva la conversione di vita?

Rappresenta la scelta di un particolare modo di vivere, per noi vivere monasticamente. Sembra la cosa più banale, ma è la cosa più concreta del mondo: sottoscrivere fino al midollo delle ossa la vocazione con cui Dio ci ha chiamati, per ottenere la conversione del cuore, quella che S. Paolo esprime dicendo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Questa conversione poggia su delle rinunce (esterne, interne, contemplative) e degli impegni precisi che tratteremo in seguito.

La prima parte del libro si sofferma sull’analisi del concetto di conversione di vita, di cui noi facciamo esplicitamente voto (e quindi dobbiamo verificare se ci siamo dentro o no).

  • Primo aspetto: lotta, rinuncia, morte.
  • Secondo: trasformazione nel Cristo risorto (nella tradizione orientale si parla di trasfigurazione).

Simeone il Nuovo Teologo condensa così questa dinamica: “Lottiamo, sforziamoci di trovare Cristo, di vederlo nel suo incanto, in tutta la sua bellezza (…), umiliamoci sotto la mano potente di colui che fa sgorgare la vita eterna”. Questo ci riporta alla vita di S. Antonio che è un itinerario, un’immagine di un certo tipo di contenuto monastico. Da essa possiamo dedurre alcune costanti fondamentali:

  1. Il carattere dinamico della spiritualità dell’ascesi monastica. Processo costantemente ripreso di conversione che porta alla trasparenza e alla purità del cuore (Cassiano).
  2. Questo itinerario è compiuto attraverso una lotta a fianco del Cristo sulla Croce, contro il demonio, di cui noi parliamo troppo poco: carattere pasquale.
  3. Carattere eminentemente ecclesiale di questa lotta, che consacra Antonio padre del monachesimo, guida della Chiesa contro tutte le eresie dell’epoca. Se noi cediamo al demonio, la vittoria della Chiesa cessa in molti settori.
  4. Ritorno dell’uomo all’integrità della creazione. È ciò che ritroviamo in S. Bernardo quando parla del passaggio dalla regione della dissomiglianza a quella della somiglianza.

La vita di Antonio è un Vangelo di liberazione, di vittoria sulle forze del male per rendere l’uomo somigliante all’integrità primitiva.

  1. Atanasio su questo fondo integra due aspetti apparentemente contrastanti:
  1. lo slancio verso un progresso in avanti;
  2. la stabilità di un cuore purificato che scopre la gioia originale.

Che cosa significa la conversione di Antonio, la sua ascesi? In realtà non si tratta tanto della pratica di un certo numero di virtù morali o mortificazioni (anche se questo è importante), ma è uno stile di vita fatto di fermezza e di perseveranza. Antonio è l’atleta, il forte, il perseverante. Qui si definisce il suo stile di vita, che attinge da Paolo: «Corro per conseguire la vittoria» (cfr Fil 3, 14), tensione di tutto l’essere verso l’escatologia. Gregorio di Nissa, nella vita di Mosè, metterà il nocciolo segreto della perfezione spirituale in questa tensione in avanti: “Di inizio in inizio, attraverso numerosi inizi che non hanno mai fine”.

Antonio va sempre oltre nel deserto, non si ferma mai. La conversione è mantenere tutto l’essere senza rilassatezza, teso, senza lasciarci bloccare dalle nostre pesantezze. Questa tensione è il tono vitale della vocazione monastica. Questa dinamica pasquale ci porta sempre avanti in un superamento di noi stessi verso dei beni futuri. Antonio dice: “Non bisogna mai misurare il cammino della virtù dal tempo che è passato, ma dal desiderio”. Egli non si ricordava mai del tempo passato ma, giorno dopo giorno, andava avanti come Paolo, dimenticando le cose passate, teso verso la meta. Non abbandoniamo, non scoraggiamoci; ma come se cominciassimo oggi aumentiamo ogni giorno il nostro ardore. Il Signore collabora con noi, camminiamo nel cammino della virtù. Chi si volge indietro è come la moglie di Lot, non è fatto per il Regno dei Cieli.

Dunque il voto di conversione di vita è già qualcosa che ci deve mettere in uno stato di allarme, in continuo cammino contro tutte le installazioni e sicurezze, verso la misura del Cristo che supera infinitamente le nostre piccole misure umane. Dovrebbero aiutarci a capire questo, a livello della nostra comunità, Valserena e Hinojo che rappresentano per noi proprio l’andare oltre, con tutto ciò che questo comporta. Che questo ci aiuti a recuperare la purezza del cuore.

10 Settembre 1972

Voto di conversione di vita 2

Riprendiamo oggi il nostro discorso sul voto di conversione di vita, che è il cuore della dinamica della vita monastica, cioè dell’andare oltre.

La prima volta che ne abbiamo parlato, dicevamo che questo voto si fonda tutto su una serie di rinunce (esterne ed interne: solitudine, stabilità, celibato, conversione del cuore, silenzio del cuore, ecc.) e su una crescita che è in pratica la trasfigurazione nella luce della resurrezione.

Tutto questo lo abbiamo considerato alla luce dei primi Padri del monachesimo (in particolare S. Antonio) e continuiamo in questa linea, poiché ogni intuizione sul futuro è resa valida dal poterla confrontare con la tradizione e poter riscoprire che c’è un filone che conduce dalla tradizione fino alla parusia.

In S. Antonio il concetto di ascesi e di rottura significa anzitutto una rinuncia ai beni. Distribuzione dei beni materiali ai poveri, liberarsene veramente, cioè non usarne più come cosa propria; e rinuncia ai beni affettivi che vengono affidati a Dio (es. la sorella).

È una rinuncia ai beni per prendere il largo in una esperienza di scioltezza di movimento; prendere il largo da un passato che lasciava supporre un avvenire piacevole, comodo, tranquillo, verso qualcosa che non si sa bene cosa sia in realtà, cioè è senz’altro verso Dio, ma proprio per questo è verso l’assoluto e l’ignoto. È un abbandonarsi ad una esperienza di autentica povertà spirituale, cioè un rendersi vuoti per farsi recettivi a Dio. Ma questo è un primo movimento e man mano che si solidifica, Antonio sceglie la solitudine; solitudine che non è quella che lui pensava, ma che il Signore, attraverso vari avvenimenti, gli indica. Così egli giunge alla “montagna del cuore”, al luogo dove tutto è diventato “incontro”. L’ascesi porta lì: al luogo dove tutto diventa incontro con Dio. È quello che ci riportava una Madre riferendoci di quella Santa che amava ogni luogo del monastero, perché era stato luogo di un incontro con Dio, attraverso una rinuncia, una pena, un servizio, ecc. L’ascesi deve condurre in questo luogo, dove veramente, la solitudine si fa così profonda che diventa amore, si identifica con l’amore e diventa servizio all’amore.

Quando Antonio ha raggiunto questa montagna, si fa veramente presente a tutti i richiami: la separazione, la rottura. Interiorizzando tutte le cose, fa sì che coloro che erano lontani nello spazio e nel tempo, diventino veramente “prossimo”. Come avviene questa rottura, questa separazione che è in fondo l’autentica liberazione?

Nella vita di Antonio si colgono due filoni fondamentali:

– il primo è che la realtà liberante dell’uomo è la Parola, l’ascolto della Parola. Sant’Antonio, e molti altri dopo di lui, si muovono all’ascolto della Parola, di una parola del Vangelo che li raggiunge e li conduce verso mete lontane, in un cammino nuovo che forse loro stessi ignoravano. La Parola per chi l’ascolta veramente spezza il circolo ristretto delle proprie aspirazioni, dei propri egoismi, per aprirci veramente “all’oltre”, altrimenti restiamo in ascolto di noi stessi. È la Parola che veramente libera spezzando il ripiegamento per noi stessi. Se quando ci ripieghiamo su noi stessi facessimo più appello alla Parola, al Vangelo, forse saremmo più posseduti dallo Spirito, perché la Parola ci mette veramente a nudo e a contatto con la forza del Vangelo. In questa tensione escatologica, suscitata dalla Parola, nasce nell’uomo il movimento verso il Regno, verso l’incontro, e tutta la vita diventa veramente “incontro”.

È qui la prima radice di questa tremenda strada nel deserto che caratterizza la vita dei primi Padri del deserto. Infatti essi si consegnavano anima e corpo alla salmodia, cioè alla Parola. Essi lasciavano che la Parola li penetrasse fino in fondo stabilendo in loro la capacità di ascolto in cui si radica l’ascesi.

– L’altra forza liberante, che appare dalla vita di Antonio, è la “lotta”, il “combattimento”. In Antonio questo è l’aspetto più spettacolare della sua vita, ma dovremmo forse chiederci qual è il significato di questo. Prima di tutto significa una cosa semplicissima e allo stesso tempo veramente autentica, di cui dovremmo prendere forse maggiore consapevolezza: chi ascolta la Parola, chi si impegna e vuole impegnarsi veramente a seguire Cristo, si trova prima o poi ad affrontare il male a volto scoperto, in una nudità inevitabile e a volte persino paurosa. Ma questo significa anche l’esperienza che “la fede è la vittoria del mondo”, perché Dio è forte. Significa l’esperienza che la Risurrezione è la forza, è la vittoria. Da qui scaturisce l’ottimismo, che è il frutto dell’ascesi: la gioia, l’arditezza, la capacità di beffarsi quasi del demonio e del male. L’assoluta certezza della forza di Dio.

Seguendo le tappe di questa ascesi, in Antonio, vediamo che questo è anche il nostro cammino. Anzitutto la lotta procede dal cuore, dai pensieri. Il demonio tenta di ricondurre Antonio verso un passato fatto di benessere, di affetti domestici, di piccole cose tranquille, rassicuranti, distensive, e tenta di bloccare il suo cammino verso l’ignoto, verso l’oltre, ma non attacca. Allora il demonio tenta sul corpo, sulla realtà fisica. Antonio sperimenta una carne fiaccata, che non risponde più allo spirito. Ma è proprio in questa realtà corporea, che non dà più alcuna sicurezza, che Antonio è raggiunto dall’esperienza della risurrezione, per cui si muove e va avanti in virtù dello Spirito, anche se la carne è spossata.

Allora il demonio tenta per un’altra via, quella della compiacenza di sé, del possesso, del bisogno di affermazione e, nel deserto intorno, il male tenta la via della paura.

È interessante e ricco di insegnamento notare come, in Antonio, più la solitudine si interiorizza, più la lotta si fa esterna, quasi per significare che la liberazione dell’uomo comincia dal centro del suo essere, dal pensiero purificato e inchiodato alla Parola e che esplode poi all’esterno in cui c’è veramente il dominio su tutto: “Sono servo di Cristo” risponde Antonio al mostro e in questo risolve tutto.

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