Nel nome del Signore
ogni ginocchio si pieghi
in cielo, in terra e negli inferi;
perché il Signore si è fatto obbediente
fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo proclamiamo:
«Gesù Cristo è Signore
nella gloria di Dio Padre».
Cfr. Fil 2, 8. 10-11
Il quarto cantico del servo del Signore: l’uomo dei dolori che ben conosce il patire.
Is 52, 13 – 53, 12 SALMO RESPONSORIALE
Sal 87 (88), 2-6a. 9-10 EPISTOLA
Tenete fisso lo sguardo su Gesù, che si sottopose alla croce.
Eb 12, 1b-3 CANTO AL VANGELO
(Cfr. Gv 12, 32) VANGELO
Sei giorni prima della Pasqua, la cena di Betània: lo ha fatto per la mia sepoltura.
Gv 11, 55 – 12, 11 PREGHIERA DEI FEDELI
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COMMENTO AL VANGELO
JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI
Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione*
Capitolo 1 – Ingresso in Gerusalemme e purificazione del Tempio
1. L’ingresso in Gerusalemme
Il Vangelo di Giovanni riferisce su tre feste di Pasqua, che Gesù ha celebrato durante il periodo della sua vita pubblica: una prima Pasqua, alla quale era legata la purificazione del tempio (2,13-25); la Pasqua della moltiplicazione dei pani (6,4) e infine la Pasqua della morte e risurrezione (p. es. 12,1; 13,1), che è divenuta la «sua» grande Pasqua, sulla quale si fonda la festa cristiana, la Pasqua dei cristiani. I sinottici hanno trasmesso notizia di una sola Pasqua: quella della croce e risurrezione; in Luca il cammino di Gesù appare quasi come un unico ascendere in pellegrinaggio dalla Galilea fino a Gerusalemme.
È una «ascesa» innanzitutto nel senso geografico: il Mare di Galilea è situato a 200 metri circa sotto il livello del mare, l’altezza media di Gerusalemme è di 760 metri al di sopra di tale livello. Come gradini di questa salita, ciascuno dei sinottici ci ha trasmesso tre profezie di Gesù circa la sua passione, alludendo con ciò anche all’ascesa interiore, che si svolge nel cammino esteriore: l’andar su verso il tempio come luogo dove Dio voleva «stabilire il suo nome» – così il Libro del Deuteronomio descrive il tempio (cfr 12,11; 14,23).
L’ultima meta di questa «ascesa» di Gesù è l’offerta di se stesso sulla croce, offerta che sostituisce i sacrifici antichi; è la salita che la Lettera agli Ebrei qualifica come l’ascesa verso la tenda non più fatta da mani d’uomo, ossia nel cielo stesso, al cospetto di Dio (9,24). Questa ascesa fino al cospetto di Dio passa attraverso la croce – è la salita verso l’«amore sino alla fine» (cfr Gv 13,1), che è il vero monte di Dio.
La meta immediata del pellegrinaggio di Gesù, tuttavia, è Gerusalemme, la città santa con il suo tempio, e la «Pasqua dei Giudei», come la chiama Giovanni (2,13). Gesù si era incamminato insieme ai Dodici, ma poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini; Matteo e Marco ci raccontano che già alla partenza da Gerico c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (Mt 20,29; cfr Mc 10,46).
Un evento in quest’ultimo tratto del percorso aumenta l’attesa di ciò che sta per avvenire e mette Gesù in modo nuovo al centro dell’attenzione dei pellegrini. Lungo la strada sta seduto un mendicante cieco di nome Bartimeo. Egli viene a sapere che fra i pellegrini c’è Gesù, e allora non cessa più di gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Si cerca di quietarlo, ma invano, e alla fine Gesù lo invita ad avvicinarsi. Alla sua supplica: «Rabbunì, che io riabbia la vista!», Gesù risponde: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Bartimeo riacquistò la vista «e prese a seguire Gesù per la strada» (Mc 10,48-52). Diventato vedente, egli si associò al pellegrinaggio verso Gerusalemme. A un tratto il tema «Davide» e la sua intrinseca speranza messianica s’impadronì della folla: quel Gesù, col quale erano in cammino, non era forse davvero l’atteso nuovo Davide? Con il suo ingresso nella città santa era forse arrivata l’ora in cui Egli avrebbe ristabilito il regno di Davide?
La preparazione, che Gesù realizza con i suoi discepoli, aumenta questa speranza. Gesù arriva al Monte degli ulivi dalla direzione di Bètfage e Betània, da dove si attende l’ingresso del Messia. Manda avanti due discepoli ai quali dice che avrebbero trovato un asino legato, un puledro, sul quale nessuno era mai salito. Devono scioglierlo e portarglielo; ad un’eventuale domanda circa la loro legittimazione devono rispondere: «Il Signore ne ha bisogno» (Mc 11,3; Lc 19,31). I discepoli trovano l’asino, vengono – come previsto – interrogati circa il loro diritto, danno la risposta loro ordinata e possono compiere la loro missione. Così Gesù entra in città su un asino preso in prestito, che subito dopo farà riportare al suo padrone.
Al lettore di oggi tutto ciò può sembrare piuttosto trascurabile, ma per i giudei contemporanei di Gesù è gravido di riferimenti misteriosi. In ogni particolare è presente il tema della regalità con le sue promesse. Gesù rivendica il diritto regale della requisizione di mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità (cfr Pesch, Markusevangelium II, p. 180). Anche il fatto che si tratti di un animale, sul quale non è ancora salito nessuno, rimanda a un diritto regale. Soprattutto, però, c’è un’allusione a quelle parole veterotestamentarie che danno all’intero svolgimento il suo significato più profondo.
C’è innanzitutto Genesi 49,10s – la benedizione di Giacobbe, in cui viene assegnato a Giuda lo scettro, il bastone del comando, che non sarà tolto tra i suoi piedi «finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli». Di Lui si dice che Egli lega alla vite il suo asinello (49,11). L’asino legato rimanda quindi a Colui che deve venire, a cui «è dovuta l’obbedienza dei popoli».
Ancora più importante è Zaccaria 9,9 – il testo che Matteo e Giovanni citano esplicitamente per la comprensione della «Domenica delle Palme»: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9; Gv 12,15). Sul significato di queste parole del profeta per la comprensione della figura di Gesù abbiamo già riflettuto ampiamente commentando la beatitudine dei miti (dei mansueti) (cfr Parte I, pp. 104-109). Egli è un re che spezza gli archi da guerra, un re della pace e un re della semplicità, un re dei poveri. E infine abbiamo visto che Egli governa un regno che si estende da mare a mare e abbraccia il mondo intero (cfr ibid., p. 105); questo ci ha ricordato il nuovo regno universale di Gesù che, nelle comunità della frazione del pane, cioè nella comunione con Gesù Cristo, si espande da mare a mare quale regno della sua pace (cfr ibid., p. 108s). Tutto ciò allora non era percepibile, ma in retrospettiva si rende evidente quanto – nascosto nella visione profetica – era appena accennato solo da lontano.
Per ora teniamo a mente: Gesù rivendica, di fatto, un diritto regale. Vuole che si comprenda il suo cammino e il suo agire in base alle promesse dell’Antico Testamento, che in Lui diventano realtà. L’Antico Testamento parla di Lui – e inversamente: Egli agisce e vive nella parola di Dio, non secondo programmi e desideri suoi propri. La sua esigenza si basa sull’obbedienza di fronte all’ordine del Padre. Il suo è un cammino all’interno della parola di Dio. L’ancoraggio a Zaccaria 9,9 esclude al contempo un’interpretazione «zelota» della regalità: Gesù non si fonda sulla violenza; non avvia un’insurrezione militare contro Roma. Il suo potere è di carattere diverso: è nella povertà di Dio, nella pace di Dio, che Egli individua l’unico potere salvifico.
Ritorniamo allo svolgimento del racconto. L’asinello viene condotto a Gesù, e ora avviene qualcosa di inaspettato: i discepoli gettano sull’asino i loro mantelli; mentre Matteo (21,7) e Marco (11,7) dicono semplicemente: «ed Egli vi si pose a sedere», Luca scrive: «vi fecero salire Gesù» (19,35). È questa la parola usata nel Primo Libro dei Re nel racconto dell’elevazione di Salomone sul trono di suo padre Davide. Lì si legge che il re Davide ordina al sacerdote Zadòk, al profeta Natan e a Benaià: «Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone, mio figlio, sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon! Ivi il sacerdote Zadòk con il profeta Natan lo unga re d’Israele…» (1,33s).
Anche lo stendere i mantelli ha una sua tradizione nella regalità di Israele (cfr 2 Re 9,13). Ciò che i discepoli fanno è un gesto di intronizzazione nella tradizione della regalità davidica e così nella speranza messianica, che da questa tradizione si è sviluppata. I pellegrini, che insieme a Gesù sono venuti a Gerusalemme, si lasciano contagiare dall’entusiasmo dei discepoli; stendono ora i loro mantelli sulla strada sulla quale Egli avanza. Tagliano rami dagli alberi e gridano parole del Salmo 118 – parole di preghiera della liturgia dei pellegrini di Israele – che sulle loro labbra diventano una proclamazione messianica: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mc 11,9s; cfr Sal 118,25s).
Questa acclamazione viene trasmessa da tutti e quattro gli evangelisti, anche se con le loro specifiche varianti. Di tali differenze non irrilevanti per la storia della trasmissione e per la visione teologica dei singoli evangelisti non dobbiamo occuparci in questo luogo. Cerchiamo soltanto di comprendere le essenziali linee di fondo, tanto più che la liturgia cristiana ha accolto questo saluto interpretandolo in base alla fede pasquale della Chiesa.
C’è innanzitutto l’esclamazione: «Osanna!». All’origine, questa era stata una parola di supplica, come: «Deh, aiutaci!». Nel settimo giorno della festa delle Capanne, i sacerdoti, girando sette volte intorno all’altare dell’incenso, l’avevano ripetuta in modo monotono come supplica per la pioggia. Ma così come la festa delle Capanne da festa di supplica si trasformò in una festa di gioia, la supplica divenne sempre di più un’esclamazione di giubilo (cfr Lohse, ThWNT IX, p. 682).
Probabilmente già ai tempi di Gesù, la parola aveva assunto anche un significato messianico. Possiamo così nell’esclamazione «osanna» riconoscere un’espressione dei molteplici sentimenti sia dei pellegrini venuti con Gesù sia dei suoi discepoli: una lode gioiosa a Dio nel momento di quell’ingresso; la speranza che fosse arrivata l’ora del Messia e al contempo la richiesta che si realizzasse nuovamente il regno di Davide e con esso il regno di Dio su Israele.
L’espressione seguente del Salmo 118: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore», apparteneva, come s’è detto, in un primo tempo alla liturgia di Israele per i pellegrini, con la quale essi venivano salutati all’ingresso della città o del tempio. È quanto dimostra anche la seconda parte del versetto: «Vi benediciamo dalla casa del Signore». Era una benedizione che dai sacerdoti veniva rivolta e quasi applicata ai pellegrini in arrivo. Ma l’espressione «che viene nel nome del Signore» nel frattempo aveva assunto un significato messianico. Anzi, era diventata addirittura la denominazione di Colui che era stato promesso da Dio. Così, da una benedizione per i pellegrini, l’espressione si è trasformata in una lode di Gesù, che è salutato come Colui che viene nel nome del Signore, come l’Atteso e l’Annunciato da tutte le promesse.
Il particolare riferimento davidico che si trova soltanto nel testo di Marco riproduce per noi forse nel modo più originale l’attesa dei pellegrini di quell’ora. Luca, che invece scrive per i cristiani provenienti dal paganesimo, ha del tutto omesso l’osanna e il riferimento a Davide, sostituendolo con l’esclamazione che allude al Natale: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (19,38; cfr 2,14). Da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche da Giovanni, si evince chiaramente che la scena dell’ossequio messianico a Gesù si è svolta all’ingresso della città e che i suoi protagonisti non erano gli abitanti di Gerusalemme, ma coloro che accompagnavano Gesù entrando con Lui nella città santa.
Matteo ce lo fa capire nel modo più esplicito, proseguendo dopo il racconto dell’osanna rivolto a Gesù, figlio di Davide, così: «Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: “Chi è costui?” E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”» (21,10s). Il parallelismo con la narrazione dei magi dall’Oriente è evidente. Anche allora nella città di Gerusalemme non si sapeva niente del neonato re dei Giudei; la notizia di ciò aveva lasciato Gerusalemme «turbata» (Mt 2,3). Ora ci si «spaventa»: Matteo usa la parola eseísthē (seíō) che esprime lo sconvolgimento causato da un terremoto.
Del profeta proveniente da Nazaret si era in qualche modo sentito dire, ma Egli sembrava non avere alcun rilievo per Gerusalemme, non era conosciuto. La folla che, alla periferia della città, rendeva omaggio a Gesù non è la stessa che avrebbe poi chiesto la sua crocifissione. In questa duplice notizia circa il non-riconoscimento di Gesù – un atteggiamento di indifferenza e di spavento insieme – c’è già un qualche accenno alla tragedia della città, che Gesù ha annunziato ripetutamente, in modo più esplicito, nel suo discorso escatologico.
In Matteo, però, c’è anche un ulteriore importante testo, proprio di lui soltanto, circa l’accoglienza di Gesù nella città santa. Dopo la purificazione del tempio, alcuni fanciulli ripetono nel tempio le parole dell’omaggio: «Osanna al figlio di Davide» (21,15). Gesù difende l’acclamazione dei fanciulli davanti ai «sommi sacerdoti e agli scribi» col riferimento al Salmo 8,3: «Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode». Ritorneremo ancora a questa scena nella riflessione sulla purificazione del tempio. Cerchiamo qui di comprendere che cosa Gesù ha voluto dire col riferimento al Salmo 8, un’allusione con la quale ha spalancato una vasta prospettiva storico-salvifica.
Ciò che Egli intendeva si rende evidente, se ricordiamo l’episodio, riferito da tutti gli evangelisti sinottici, circa i bambini condotti da Gesù, «perché li accarezzasse». Contro la resistenza dei discepoli, che vogliono difenderlo di fronte a questa invadenza, Gesù chiama i bambini a sé, impone loro le mani e li benedice. Egli spiega poi questo gesto con le parole: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,13-16). I bambini sono per Gesù l’esempio per eccellenza di quell’essere piccoli davanti a Dio che è necessario per poter passare attraverso la «cruna dell’ago», di cui parla il racconto del giovane ricco nel brano che segue immediatamente (Mc 10,17-27).
Prima c’era già stato l’episodio in cui Gesù aveva reagito alla disputa per la precedenza tra i discepoli mettendo in mezzo un bambino e, abbracciandolo, aveva detto: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,33-37). Gesù si identifica col bambino – Egli stesso si è fatto piccolo. Come Figlio non fa niente da sé, ma agisce totalmente a partire dal Padre e in vista di Lui.
In base a ciò si capisce poi anche la pericope successiva, in cui non si parla più di bambini, ma dei «piccoli» e l’espressione «i piccoli» diventa addirittura la denominazione dei credenti, della comunità dei discepoli di Gesù (cfr Mc 9,42). Nella fede essi hanno trovato questo autentico essere piccoli, che riporta l’uomo alla sua verità.
Con ciò ritorniamo all’«osanna» dei bambini: nella luce del Salmo 8 la lode dei bambini appare come un’anticipazione della lode che i suoi «piccoli» intoneranno a Lui molto al di là di questa ora.
Per questo, con buona ragione la Chiesa nascente poteva vedere in tale scena la rappresentazione anticipata di ciò che essa fa nella liturgia. Già nel testo liturgico post-pasquale più antico che conosciamo – nella Didachē (intorno all’anno 100) – prima della distribuzione dei Doni sacri appare l’«osanna» insieme col «Maranatha»: «Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna al Dio di Davide. Chi è santo, acceda; chi non lo è, si converta. Maranatha. Amen» (10,6).
Molto presto è stato inserito nella liturgia anche il Benedictus: per la Chiesa nascente la «Domenica delle Palme» non era una cosa del passato. Come allora il Signore era entrato nella città santa cavalcando l’asinello, così la Chiesa lo vedeva arrivare sempre di nuovo sotto le apparenze umili del pane e del vino.
La Chiesa saluta il Signore nella santa Eucaristia come Colui che viene ora, che è entrato in mezzo ad essa. E al contempo Lo saluta come Colui che rimane sempre il Veniente e ci prepara alla sua venuta. Come pellegrini andiamo verso di Lui; come pellegrino Egli ci viene incontro e ci coinvolge nella sua «ascesa» verso la croce e la risurrezione, verso la Gerusalemme definitiva che, nella comunione col suo Corpo, già si sta sviluppando in mezzo a questo mondo.
* Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 11-34