A. Mainardi, Convenire in unum. Il luogo monastico tra Oriente e Occidente

A. Mainardi, Convenire in unum. Il luogo monastico tra Oriente e Occidente

Scuola Grande di San Marco
ARTE, FEDE, MEMORIA DEI LUOGHI STORICO-RELIGIOSI

Missione tra Origine e Rigenerazione
Venezia 7-8 Giugno 2018

 

“Dio fa abitare in una casa coloro che hanno un unico intento”.

Questo versetto del salmo 68, nella versione della Septuaginta, descrive il movimento interiore dell’abitare monastico. Definisce uno spazio e ritma un tempo: il convenire in unum della comunità dei fratelli. L’abitare dell’uomo è un riflesso dell’abitare di Dio: “Dio abita la dimora del suo Santo; ai solitari Dio concede una casa”, suona il testo masoretico dello stesso versetto.

Forse mai come oggi l’abitare come dimensione costitutiva dell’umano essere-nel-mondo è messo in questione alla radice. Letteralmente: i “non-luoghi” (Marc Augé) delle megalopoli globali sono la dis-topia realizzata dello sradicamento; iperluoghi che si saturano di strutture, attività, scambi, spersonalizzati e deformanti; affollati (le folle in cui ci immergiamo ogni giorno nella metropolitana, negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie) ma non abitati; dis-abitati perché inabitabili; il verso del loro attraversamento è indifferente: manca un senso che dia la direzione del movimento e la sensatezza del sostare. Siamo inospitali perché abitiamo (alloggiamo) in luoghi inospitali.

La memoria dei luoghi religiosi, nel doppio senso di un genitivo oggettivo (ricordare la presenza di questi luoghi) e soggettivo (la memoria storica che questi luoghi custodiscono), interroga anche lo sradicamento post-moderno. Che cosa significa recuperare un luogo  storico-religioso, al di là del restauro del monumento? Che cosa dice al visitatore o all’ospite la continuità ininterrotta o il ritorno di una vita monastica in questi luoghi? Qual è il senso dello “stare” in un luogo (la stabilitas secondo Benedetto)? Che cosa significa abitare?

Secondo Marcel Gauchet l’esodo dal sacro è avvenuto molto prima di quanto non vogliamo riconoscere; non ieri, con l’avanzata indefinita e globale del post-moderno; ma nemmeno l’altro ieri, con la rivoluzione scientifica e tecnica e l’inizio della modernità. Si tratta di un movimento inaugurale della storia umana, di cui scorgiamo solo le vestigia in qualche brandello di società umana “precivile”. L’esodo irreversibile dal sacro avviene con l’erezione della polis, e quindi dello stato. Potremmo dire con una organizzazione dell’“abitato” che non dipende più dall’habitat naturale, ma lo modifica e lo piega a  un ethos  autonomo. Lo  Stato e la  polis strutturano  un  altro  sistema del sacro, tanto che dell’originario universo religioso, che disappropria totalmente l’uomo del volere “in proprio”, non resta più (quasi) nulla.

Per questo forse la dinamica dell’abitare monastico entra come domanda e come possibilità in una post-modernità disorientata, in modo tanto più convincente quanto meno il luogo monastico aderisce alla sacralità originaria-arcaica (prestatale e pre-politica): il “luogo sacro” arcaico è totalmente sottratto al volere dell’uomo non solo perché non ancora sottomesso all’onnipotenza della tecnica, ma perché ancorato a un ordine altro (religioso, appunto) che definisce ruoli e doveri al di fuori del tempo storico. Ripensare oggi il senso del luogo monastico come orizzonte dell’abitare il mondo, dentro la storia umana, significa mettere a fuoco tre o quattro momenti essenziali, che possiamo caratterizzare con quattro verbi tratti dalla tradizione monastica. Forse, altrettante occasioni per ritrovare se stessi: abitare (dall’habitare secum del solitario alla fondazione dei grandi cenobi); laborare (il rapporto di trasformazione-contemplazione con l’ambiente naturale); vigilare (il rapporto con il tempo); ospitare (la dilatazione dello spazio interiore all’accoglienza dell’altro).  [segue]

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